D’accordo, siamo per “il pane e le rose” e sappiamo bene che i diritti civili non vanno disgiunti da quelli sociali. Ma “terzogiornale” era nato, più di tre anni fa, per occuparsi soprattutto dei secondi. Invece ci tocca spesso, troppo spesso, di affrontare questioni come l’omosessualità o l’identità di genere, o il diritto all’aborto, che dovrebbero essere ormai da tempo risolte all’interno del mondo occidentale. Ciò dipende senza dubbio dal terreno scelto dalle forze conservatrici e reazionarie per il loro tentativo di sfondamento. Un po’ come per la faccenda dell’egemonia, dal governo italiano ridotta all’occupazione di posizioni apicali e a un regolamento di conti con scrittori orientati a sinistra. In mancanza di una vera svolta autoritaria, che potrebbe però pur sempre arrivare, si fa del piccolo cabotaggio. E noi costretti alla difesa in questo mediocre gioco delle dosi omeopatiche.
Non ci sta aiutando papa Bergoglio, che anziché insistere, in questa ultima parte del suo pontificato, sulla riforma del cattolicesimo – per esempio aprendo al sacerdozio delle donne, o mettendo finalmente da parte lo storico tabù sull’interruzione volontaria della gravidanza – si è lasciato andare a una delle più viete espressioni di disprezzo nei confronti della scelta omosessuale, dando così indirettamente testimonianza di qualcosa che a noi era chiaro da sempre: non basta battersi per l’ecologia, o contro la miseria delle vite ridotte a “scarti”, per collocarsi su un fronte decisamente progressista. Bergoglio ha palesato la propria matrice politica peronista – declinazione sudamericana di una sensibilità economico-sociale le cui radici affondano in una trasposizione del corporativismo fascista nell’Argentina degli anni Quaranta e Cinquanta, e in cui lo stesso mito di “Santa Evita” non era in contrasto con un machismo di fondo, confermato, a quanto sembra, da un’altra uscita del papa a proposito del “chiacchiericcio da donne”.
È anche vero che il papa è assediato dai conservatori. Probabilmente, nei suoi anni terminali, il timore sta prevalendo in lui sul coraggio. Ma quello papale è un potere assoluto, e sarebbe più consigliabile un “dispotismo illuminato” che un “conservatorismo illuminato” – ammesso che non sia lui stesso, in fin dei conti, quel tradizionalista moderato che speravamo che non fosse. Certo è, come sostiene Michele Mezza nel suo editoriale (vedi qui), che senza un presidio di sinistra, politico e culturale insieme, affidandosi solo al “buon cuore” cattolico si conclude poco. E così ritorniamo a bomba: cioè alla piccola missione che ci siamo dati come giornale, quella di sottolineare la centralità del conflitto sociale.
Sinistra vuol dire innanzitutto lotta. L’ampliamento e il rafforzamento dei diritti, o al contrario il loro indebolimento, sono il risultato di determinati rapporti di forza. Il loro spostamento in un senso o in un altro, avanti o indietro, è dato dal peso che hanno le posizioni di sinistra nella società. Una sinistra che punti alla mera “coesione sociale” è una sinistra monca, e anzi si potrebbe dire che non lo è affatto. Magari si tratta di posizioni centriste che inclinano a sinistra. Tuttavia bisogna anche fare i conti con ciò che si presenta come “sinistra”, o come “un po’ più a sinistra”, in una situazione data. Se le lotte sociali ristagnano, non ci si può poi lamentare del fatto che i partiti socialisti, o quelli che si presumono tali, scivolino a destra, pur restando, nel gioco formale della politica, il “polo di sinistra” in una distinzione dalla destra vera e propria.
Comprendere tutto questo non è facile. Sarebbe tutto più agevole se – come qualsiasi teorico del socialismo avrebbe previsto – in presenza di una grave questione salariale in Italia, con le paghe divorate dall’inflazione degli ultimi tre anni, si fosse vista una forte ondata di scioperi e di proteste. Invece si è mossa la corporazione dei tassisti, che fanno affari d’oro grazie alla straripante ripresa del turismo. Qualcosa non torna – se chi sta peggio non si agita, e chi vuole semplicemente difendere una posizione di privilegio, lo fa.
La spiegazione di questo fatto – la ribellione dei privilegiati e l’acquiescenza dei subalterni – è fornita dal concetto di “servitù volontaria”, una specie di identificazione con l’aggressore, in termini psicologici, che spinge coloro che stanno peggio ad aderire alla prospettiva dei propri oppressori. L’estensione di questo fenomeno ha dissolto la coscienza degli interessi e qualsiasi conseguente “lotta di classe”, qualsiasi consapevolezza di appartenere a un collettivo – quello degli sfruttati –, e dunque la stessa possibilità di una “lotta economica” spontanea, endemica, con momenti più alti e altri di riflusso. Oggi sembra più facile mobilitarsi intorno a un nodo etico-politico, come quello dell’appoggio occidentale a Israele e ai suoi massacri a Gaza, che intorno alla questione salariale. Siamo certamente vicini a quelle ragazze e a quei ragazzi che protestano e occupano le sedi universitarie (vedi qui e qui), ma sappiamo al tempo stesso che la loro è una mobilitazione non imperniata su interessi materiali – nemmeno su quegli stessi dei soggetti che protestano, per lo più studenti universitari destinati al precariato o magari ad andare via dall’Italia per trovare un lavoro all’altezza della propria formazione.
La complessità della situazione che stiamo vivendo è aggravata dalla guerra in Ucraina. Siamo a un passo dall’escalation, già messa in programma da Macron, il quale non è affatto quel politico intelligente che il nostro amico Giorgio Graffi ritiene che sia (vedi qui), ma soltanto un mediocre opportunista che ha il suo problema interno con una Marine Le Pen – a cui peraltro le sue stesse politiche hanno finito col dare fiato –, che, raccoglitrice dell’insoddisfazione sociale serpeggiante, è data oltre il 30%. Si sa che Le Pen è filorussa, ha ricevuto anche non pochi soldi da una banca russa, e il richiamo a una posizione intransigente a favore dell’Ucraina serve anzitutto a Macron nella campagna elettorale.
Sulla questione, però, gli schieramenti in Europa sono piuttosto confusi: ci sono il filoputiniani – come Orbán e il premier slovacco Fico, quello a cui hanno sparato – e ci sono gli atlantisti a oltranza. Dovrebbe essere chiaro, tuttavia, che le elezioni europee non sono in alcun modo un referendum sulla guerra. Vederle così è sbagliato. Anzitutto perché non è l’Unione europea in se stessa che decide se andare avanti nell’escalation o no, sono i singoli Stati. Se anche le minacce della Francia di Macron dovessero avere un seguito – preoccupa, indubbiamente, l’apparente avvicinamento a questa posizione da parte del cancelliere Scholz – che cosa faranno gli altri Paesi? E soprattutto cosa farà la Nato?
Per noi, che abbiamo come bussola il conflitto sociale, un eventuale ulteriore passo avanti sulla via della guerra potrà essere fermato solo dalla opinione pacifista e dai movimenti all’interno dei Paesi europei. Ma, riguardo al voto dell’8 e 9 giugno, la partita non è questa. È quella di cercare di evitare, nel parlamento europeo, uno spostamento a destra degli equilibri da anni consolidati. Perciò votare per liste come quella di Santoro, molto lontana dal quorum, non ha alcun senso. E poco più senso ha, in questa situazione, votare per i 5 Stelle, i quali sono privi di una chiara collocazione nel parlamento europeo, non appartenendo ad alcun gruppo.
Ci piacerebbe poter indicare con certezza nei partiti del socialismo europeo un punto di riferimento politico e ideale. Purtroppo non possiamo farlo, perché questi partiti, nella maggior parte dei casi, hanno smarrito la bussola del conflitto sociale. Si può trovare un’eccezione nel Psoe di Sánchez e nel governo spagnolo, soprattutto nel modo in cui sono andati al voto e hanno gestito il dopo voto, con una linea efficace di contrasto alle destre (vedi qui); nell’insieme però non si può dire che il socialismo europeo sia quello che dovrebbe essere. Ciò nonostante, si tratta ancora del gruppo più grosso nel parlamento europeo in grado di evitare lo scivolamento dei popolari verso una maggioranza con la destra estrema.