Oltre a quella, ormai abituale, di antisemitismo, una delle accuse mosse a coloro che, come gli studenti di molti Paesi, manifestano la loro indignazione nei confronti di quanto sta facendo Israele a Gaza è quella di volere contestare i valori occidentali: si veda, per esempio, l’editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della sera” del 19 maggio scorso. Si tratterebbe, per usare le parole di questo editorialista in vena di allusioni freudiane, di “rivolte contro il padre”. L’argomento è interessante e merita qualche approfondimento.
Anzitutto, è necessario intendersi su quali siano i “valori occidentali”; poi ci si può domandare in quale misura tali valori siano effettivamente promossi e difesi nei Paesi che dovrebbero averli più a cuore, cioè quelli occidentali (come gli Stati Uniti, l’Italia e anche Israele). L’editorialista cita, come esempi di tali valori che gli sciagurati giovani contestano, “l’ordine della bisessualità” e “una genitorialità fondata sulla presenza di un uomo e di una donna”. Potrebbe darsi che le cose stiano così, cioè che si tratti effettivamente di valori occidentali. A nostro parere, però, i valori occidentali sono, in primo luogo, quelli elencati nella “Dichiarazione universale dei diritti umani” proclamata dall’Assemblea generale dell’Onu il 10 dicembre 1948. Questo documento ha un fondamentale precursore nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, emanata dall’Assemblea nazionale francese il 26 agosto 1789, com’è evidente fin dalle prime parole di entrambe, che suonano rispettivamente così: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” (Dichiarazione 1948); e “gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti” (Dichiarazione 1789).
L’Onu ha elevato dunque a valore universale principi che hanno indubbiamente la loro origine nella cultura occidentale. Per questo motivo, a dispetto di ogni tentazione “terzomondista”, la civiltà occidentale può essere considerata superiore, in termini di rispetto dei diritti umani, a qualunque altra civiltà. A questo risultato la cultura occidentale non è arrivata per una sorta di dotazione genetica innata, che la renderebbe superiore alle altre, ma attraverso un lungo e doloroso processo. Per molti secoli, altre culture sono state superiori a quella occidentale, per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani. Pensiamo all’art. 18 della Dichiarazione del 1948, che afferma solennemente il diritto di professare qualsiasi credo religioso: la maggior parte degli ebrei espulsi nel 1492 dalla cattolicissima e occidentale Spagna trovarono rifugio nell’Impero ottomano, musulmano e orientale; e, quando in Europa il regime nazista intraprese la più spaventosa campagna antisemita, gli ebrei potevano vivere tranquillamente in molti Paesi musulmani, prima di esserne purtroppo espulsi nel 1948, dopo la fondazione dello Stato di Israele e la conseguente prima guerra arabo-israeliana. D’altra parte, è evidente che la maggior parte, se non la totalità, dei Paesi musulmani è oggi assai poco rispettosa dei principi delle Dichiarazioni dei diritti dell’uomo: si tratta infatti di dittature, più o meno mascherate. Al contrario, nella maggior parte dei Paesi occidentali vige un regime democratico. Questo vale anche per i Paesi arabi e per Israele: mentre, nei primi, ipotetici difensori della politica di Israele finirebbero sicuramente in carcere, alcuni cittadini israeliani ebrei (cioè non arabi), sia pure a costo di forti ostilità, hanno potuto e possono esprimere le loro opinioni filopalestinesi. È il caso, per esempio, dello storico Ilan Pappé, il quale, già prima del fatidico 7 ottobre 2023, parlava di “genocidio” della popolazione di Gaza da parte di Israele (cfr. La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, edito da Fazi, pp. 340-41).
Tuttavia, l’Occidente non sembra molto coerente nel rispetto dei suoi stessi valori. Prendiamo il modo in cui il “Corriere della sera” del 22 maggio ha commentato la richiesta, avanzata dal procuratore presso la Corte penale internazionale Karim Khan, di mandare a processo per crimini di guerra e contro l’umanità, da un lato, il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu e il suo ministro della difesa Yoav Gallant; dall’altro, i tre dirigenti di Hamas Yahya Sinwar, Mohammed Diab Ibrahim Al-Masri e Ismail Haniyeh. Secondo il giornalista Stefano Montefiori, si tratta di “una equiparazione di fatto tra terroristi islamisti e leader democraticamente eletti”. L’argomentazione è piuttosto curiosa: per Montefiori uno statista e un terrorista non possono essere messi sullo stesso piano, anche se vengono accusati dello stesso delitto; quindi, se ne potrebbe dedurre, uno stimato professionista che avvelena la moglie e un pregiudicato che sgozza la propria non sarebbero ugualmente assassini. Eppure, stando all’art. 7 della Dichiarazione del 1948, “tutti sono eguali dinanzi alla legge” (ma forse qualcuno è “più eguale degli altri”, per citare ancora una volta La fattoria degli animali di Orwell). Nello stesso articolo, Montefiori ricorda che Karim Khan, nella sua precedente carriera di avvocato, “ha accettato molti incarichi controversi, senza paura di difendere l’indifendibile”, essendo stato difensore dell’ex dittatore liberiano Charles Taylor, del figlio di Gheddafi, Saïf al-Islam, e del dittatore ed ex presidente del Kenya, William Ruto, giungendo perfino, nel caso di quest’ultimo, “a evitargli una pesante condanna”. Non abbiamo alcuna particolare simpatia per nessuno di questi personaggi, ma l’art. 11, comma 1, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dice che “ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa”. Quindi, se vogliamo rispettare questa Dichiarazione, gli “indifendibili” non esistono. Se poi uno di questi “indifendibili” viene assolto, come nel caso di Ruto, la sentenza può ovviamente essere sbagliata, e comunque si ha il diritto di criticarla, ma non è corretto insinuare che l’assoluzione sia dovuta alla perfida astuzia dell’avvocato difensore. La messa in cattiva luce del procuratore della Corte penale internazionale si inserisce, evidentemente, nella campagna di pressioni per indurre tale Corte a respingere la richiesta di incriminazione dei governanti israeliani. Ma, come non esistono imputati indifendibili, così non esistono innocenti a priori.
In conclusione, molti di coloro che si presentano come difensori dei valori occidentali di fatto li rinnegano, quando si tratta di applicarli a favore di chi occidentale non è: le stesse accuse non possono essere rivolte ai capi di Hamas e ai ministri israeliani, per principio. Al contrario, chi veramente crede nei valori di uguaglianza, libertà e tolleranza (come gli studenti di tutto l’Occidente che in queste settimane gridano la loro protesta) non può contestare la legittimità della richiesta di sottoporre a processo uomini su cui gravano dubbi di violazione dei diritti umani, che tali uomini siano di cultura occidentale oppure no. Naturalmente, sarà la Corte penale internazionale a valutare se la richiesta del procuratore è fondata o meno, e, in caso affermativo, a istruire il processo e a emettere la relativa sentenza. Se il processo effettivamente si svolgesse, e dovesse portare a una condanna (peraltro, senza alcuna conseguenza pratica) anche di Netanyahu e di Gallant, la sentenza potrebbe naturalmente essere criticata, ma sulla base dei fatti accertati, non in nome della “impossibile equiparazione di terroristi e uomini di Stato democraticamente eletti”.