La decisione della corte inglese che riconosce i diritti di Julian Assange, nella contestazione della richiesta di estradizione presentata dal governo americano, oltre che deludere le pulsioni vendicative dell’amministrazione statunitense – e ribadire una sovranità e civiltà giuridica europee più libere rispetto a quelle a stelle e strisce –, conferma uno scenario complesso, sia politico sia filosofico, nei rapporti fra governanti e governati. Com’è noto, infatti, il fondatore di Wikileaks, l’associazione internazionale che raccoglie e diffonde documenti pubblici ritenuti riservati dai vertici dei vari Paesi, è accusato dalla Casa Bianca di avere messo in pericolo la sicurezza nazionale, diffondendo migliaia e migliaia di documenti di diversi apparati statali americani, fra cui i servizi segreti e il Dipartimento di Stato.
In gran parte di questi file, pubblicati sul web e affidati alle grandi testate giornalistiche del globo, vi sono i retroscena della politica estera ordinaria della prima superpotenza, da cui traspare il filo conduttore di un’intromissione metodica e generalizzata negli affari interni persino degli alleati atlantici più fedeli, come i tedeschi o gli italiani. Ora, il punto in discussione, la cui natura e visione stanno mutando con il passare del tempo, riguarda il rapporto fra il concetto di riservatezza e quello di sicurezza.
Inizialmente – stiamo parlando della fine degli anni Novanta – questo tema era dato per scontato: lo Stato, ma anche le grandi imprese, hanno il diritto di considerare riservate informazioni e contenuti, tanto più se indotti da un’attività di relazioni internazionali. Poi, con l’affermarsi del web come pratica globale in cui ognuno raccoglie e scambia informazioni, il diritto al segreto ha cominciato a ridursi. La tendenza è stata però guidata e dominata dai grandi service provider digitali, che, in virtù delle proprie piattaforme, come Google o Facebook, raccoglievano immense quantità di dati da cui ricavare profilazioni individuali di milioni e milioni di persone. Gli Stati hanno allora proceduto a una regolamentazione di questi potentati privati, recintando così il principio della riservatezza in un circuito in cui potevano operare solo apparati amministrativi pubblici o grandi imperi proprietari.
Assange ha fatto saltare il banco. Con le incursioni in spazi digitali, in cui erano stati depositati documenti di ogni tipo, sia pubblici sia privati, quello che sembrava inaccessibile all’opinione pubblica è diventato improvvisamente disponibile. Era tutto online, bastava solo avere la capacità di ricerca per individuare i filoni in cui erano conservati i documenti che potevano interessare. Sono così diventate di dominio pubblico le consultazioni fra ambasciatori e governo americano, oppure i rapporti di agenti della Cia e le strategie di spionaggio.
In base a questo strappo, si è scatenata la canea contro Assange che, nel frattempo, era diventato un esempio per altri testimonial della trasparenza, come lo sono stati Snowden o Manning, che hanno esteso la falla nel velo della riservatezza. Il fenomeno dei cosiddetti whistleblowers, coloro che sono in condizione di rendere pubbliche grandi quantità di documenti archiviati riservatamente, ha costretto enti pubblici e imprese private a rendere più sofisticati i sistemi di sicurezza, ma anche a ridurne l’uso. Infatti – ed è questo il fenomeno che sta mutando la relazione fra governanti e governati –, mediante una disponibilità di strumenti di ricerca e di scambio di materiali prima resi facilmente inaccessibili, l’ambito della trasparenza si è diffuso ed è diventato una pretesa sociale. Pensiamo a quanto accaduto durante la pandemia, e anche con i conflitti in Ucraina e a Gaza: contenuti e decisioni che solo fino a qualche anno prima, erano considerati segreti di Stato (o di imprese) sono stati condivisi pubblicamente, per esempio i procedimenti di ricerca e la struttura dei vaccini, oppure gli spostamenti delle truppe al fronte e il loro armamento. Stiamo parlando di materie assolutamente sensibili, entro cui la domanda pubblica di trasparenza è diventata una variabile non più eludibile.
Questa spinta sta portando a un ulteriore accorciamento fra base e vertice, con una progressiva identificazione e sovrapposizione, il che rende le figure di vertice delle istituzioni più simili ai propri elettori, nel bene e nel male. Si creano le condizioni per una conversazione diretta fra eletti ed elettori, che mostrano la stessa identità culturale e la stessa preparazione politica; di conseguenza, diventa più facile l’irruzione sulla scena di correnti populiste e sovraniste che, con il pretesto dell’antielitarismo, rendono plausibili forme di personalismo della politica.
Questo processo pone problemi seri a sinistra, perché investe, da una parte, la composizione della base sociale di un movimento di critica agli attuali assetti economici, mentre, dall’altra, impone una riflessione seria sulle forme del partito, e più in generale intorno all’organizzazione del consenso. Rispetto a una destra che più facilmente finalizza la spinta dal basso, canalizzandola in una direzione protestataria e autoritaria, la sinistra deve ricostruire completamente una propria cultura della relazione sociale e politica, ripensando un modello organizzativo che non può più essere ricalcato sulla sagoma verticistica della fabbrica, come nel secolo scorso, a cui si contrapponeva il movimento del lavoro; deve rielaborare l’istanza partecipativa alla luce di una negoziazione dei meccanismi più complessi e ambigui della socio-tecnologia, di cui appunto la trasparenza è uno degli indotti. Per questo, la campagna che chiede la piena libertà di Assange non è riducibile al prioritario obiettivo di strappare dalle mani di una vendetta di Stato chi ha strappato il sipario del potere, ma investe un’idea nuova di potere e distribuzione dell’informazione come presupposto – e fine – di una più ampia partecipazione alle decisioni.