Diceva in un suo verso Vladimir Majakovskji che il passare delle epoche a volte comporta delle sorprese e dei completi rovesciamenti di prospettiva. La vicenda Toti, e il confronto politico che la sta circondando, suggeriscono delle riflessioni al di là dello scandalo stesso. Vengono a capo tutti gli aspetti di cui, su “terzogiornale”, siamo stati tra i primi a dare conto: l’autoritarismo celato dietro il marketing politico (vedi qui), la corruzione e i favoritismi che aleggiavano dietro alcune scelte riguardanti la diga e la sistemazione delle strutture portuali (vedi qui), le pesanti ricadute sulla città dei mercanteggiamenti e della super-mercatizzazione del “fronte mare” (vedi qui e qui), la riproducibilità del modello Genova (vedi qui). Ma ci sono anche altre importanti domande da farsi. Perché un simile sistema di governo? Perché Meloni, nonostante tutto, ha lodato la governance totiana, dichiarando che “ha governato bene la sua regione”? Poi che cosa rivela l’intreccio tra amministrazione e interessi privati? Totopoli non è Tangentopoli – lo sottolineava Luca Borzani, qualche giorno fa, sulle pagine di “Repubblica”, ricordando che se trent’anni fa era la politica a dettare le regole della corruzione, ora è parte del mondo delle imprese che predomina su una politica debole e autoreferenziale.
È perciò difficile leggere Totopoli solo nei termini di una patologia politica, di un cinico e spregiudicato intreccio tra interesse politico, vantaggio personale e dominio imprenditoriale, se non la si colloca nella prospettiva di un più generale cambio d’epoca. Bisogna nutrire una sana diffidenza nei confronti delle letture in chiave morale della corruzione: è facile perdere di vista l’essenziale, se ci concentriamo sui vizi personali dei rappresentanti politici, dato che corriamo così il rischio di trascurare la vera posta in gioco della corruzione, che è in realtà la modalità di esercizio del governo. La corruzione politica qui non è solo auri sacra fames individuale, ma rimanda alla corruzione di un sistema, di una istituzione. La giungla di clientelismo e di favoritismi, in cambio di contributi elettorali e di piccole regalie, parla di una difficoltà: dice chiaramente che è al tramonto la politique d’abord, quella residua autonomia del politico che era ancora possibile cogliere nella Tangentopoli craxiana.
In Liguria l’abuso di potere delegato, commesso per soddisfare fini privati, e generalmente a scapito del bene comune e della eguaglianza delle chance, non è legato allo strapotere di remote multinazionali, ma al verificarsi di determinate condizioni di convergenza dei poteri politici locali: sindaco, presidente della Regione, presidente dell’autorità portuale del Mediterraneo occidentale, Bucci, Toti e Signorini, che entrano in una spirale sempre più stretta di relazioni con un imprenditore portuale, Spinelli. Questi diviene un grande elettore e finanziatore dei primi due, e si va progressivamente “acquistando” l’amicizia stretta del terzo. Rapporti coltivati e consolidati nel tempo, che gli hanno garantito un credito di pronta e facile riscossione, quando finalmente è nata l’opportunità di realizzare il suo vecchio progetto di conquista di una parte delle banchine. Un loop tutto sommato miserello, che diviene concreta opportunità quando, nel 2020, ricostruito il ponte Morandi, il decreto Genova viene esteso al piano delle opere portuali, riversando un fiume di denaro pubblico sulla città, da spendere in deroga alle norme degli appalti, a cominciare dalla nuova diga foranea. Quattrini e decisioni che vengono concentrati nelle mani di un solo uomo, il sindaco Bucci, confermato commissario straordinario anche oltre l’emergenza del ponte.
Totopoli si colloca quindi all’interno di uno specifico orizzonte, in cui i poteri delle amministrazioni locali convergono e possono disporre – apparentemente senza controllo – dei destini della regione, della città e del porto. Ma che cosa fare di questo enorme potere, accompagnato da imponenti rimesse di denaro pubblico? In mancanza di una idea-guida politica, ecco profilarsi la “giunta del fare” con il suo “affaccendarsi inoperoso”, il caotico proliferare di iniziative incongrue e di progetti farlocchi, dalla funivia a Skymetro: ecco Totopoli, ecco le mani sui beni pubblici e la catena delle clientele.
Questo il punto su cui riflettere al di là della mediocrità dei personaggi e delle loro personali responsabilità – di cui giudicherà la magistratura. Nei Paesi occidentali, nuove sfide stanno alterando i rapporti fra quella che un tempo veniva chiamata civil society e le strutture del potere statale. Diviene evidente il processo di sfaldamento degli istituti della rappresentanza politica alla base del tradizionale modello “democratico”. I suoi principali assiomi – il pluralismo dei partiti, la competizione fra programmi politici alternativi, la libera scelta elettorale fra élite concorrenziali – appaiono sempre più enunciati sfuggenti, puramente formali, mentre la vita pubblica è dominata dall’egemonia di alcune élite politico-economico-finanziarie, al servizio di intoccabili interessi privati.
Nel contempo, nelle democrazie occidentali scompaiono le élite ideologico-politiche, che dovrebbero indicare in quale direzione procedere, tramonta il politico weberiano. La dottrina della “democrazia pluralistica”, di fatto, rischia di venire sostituita da forme di populismo autoritario, che utilizzano spregiudicatamente i mezzi di comunicazione di massa, amministrando in nome del there’s no alternative. È il legame stesso che definisce la democrazia a essere minato dalla corruzione, vale a dire il legame fondamentale tra processo decisionale collettivo ed esercizio del potere politico: l’abuso di quest’ultimo, per soddisfare interessi privati, non può mai essere giustificato pubblicamente in nome di un mai chiarito “interesse generale”.
Eppure, questa è la strada che frequentemente viene percorsa: basti pensare a come la fittissima rete di appalti pubblici sia da tempo la casa madre miliardaria della corruzione e della concussione di leader politici, di funzionari pubblici e manager. Questo forse è il triste insegnamento di Totopoli, e, chissà se non è farle troppo credito, il motivo della lode meloniana. Detto in altri termini: la politica che possiamo e sappiamo fare è questa, questa palude di piccoli interessi locali, di patteggiamenti per ricevere finanziamenti elettorali, di favori fatti alla classe dominante a discapito dei cittadini non abbienti, di saccheggio del patrimonio pubblico. Finita l’epoca delle idealità e dei progetti, della politica fatta di contenuti argomentativi e razionali, si schiude la prateria selvaggia degli interessi particolari, della autoriproduzione degli automedonti politici.
Se questo è il quadro, allora forse Toti ha ragione, non è colpevole: ha fatto la sola politica che era in grado di fare, e ha fatto la medesima politica che si fa altrove nel Paese. Ma, al di là delle boutades, l’attenzione su questi casi e sulle ragioni del loro ripetersi dev’essere altissima, perché sono in gioco le fondamenta stesse della democrazia, e attraverso queste vicende si disegna un potenziale progetto autoritario. Il passo successivo, infatti, è quello per cui l’accettazione della corruzione si trasforma in abitudine e acquiescenza, schiudendo la strada al dispotismo.