Non è finita. Il lungo inverno dell’arretramento dei salari e dei diritti di chi lavora – avviato almeno a partire dagli anni Novanta, con la stagione della cosiddetta “politica dei redditi” e con le reiterate controriforme del lavoro varate da governi di centrosinistra, centrodestra e “tecnici” – è destinato ad avere una coda velenosa in questa legislatura, per volontà dei partiti della maggioranza di destra-centro e del governo Meloni. Un paio di disegni di legge, attualmente incardinati alla Camera e al Senato, indicano una continuità con la stagione segnata dalle cosiddette “riforme” del diritto del lavoro, attraverso provvedimenti come il pacchetto Treu, la legge Biagi, la legge Fornero, il Jobs Act.
Non ha concorso a deviare il percorso politico di governo e maggioranza neppure la conferma del triste primato dell’Italia in materia di retribuzioni. Secondo l’analisi resa pubblica lo scorso anno dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), gli italiani guadagnano addirittura meno che negli anni Novanta del secolo scorso. Siamo l’unico Paese europeo di cui è certificato un calo dei salari reali (cioè il valore delle retribuzioni rapportato all’aumento dei prezzi) nell’ultimo trentennio. Per la precisione, si parla di un calo del 2,9% dal 1990 al 2020, periodo nel quale tutti gli altri Paesi sviluppati hanno visto una crescita, più o meno sostenuta, del valore reale degli stipendi.
L’Italia è anche il Paese in cui le retribuzioni sono diminuite maggiormente nell’ultimo periodo, segnato dall’inflazione provocata dalla guerra, dalle sanzioni economiche e dalle tensioni internazionali: sempre secondo l’analisi dell’Ocse, sulla base di dati forniti da Eurostat, meno 7,3%, nel solo 2022 rispetto all’anno precedente. I dati dicono quindi che c’è una debolezza strutturale, crescente ma non nuova, del lavoro salariato. I sacerdoti della religione dell’impresa e del libero mercato individuano in genere due colpevoli: la debolezza della contrattazione di secondo livello (meno contratto nazionale, più premialità aziendale), e la scarsa crescita della produttività. E in effetti, dopo che si è privatizzato e delocalizzato l’apparato industriale lungo l’arco di qualche decennio, per puntare sul cosiddetto “oro nero” del turismo, pare che si sia scoperto che l’amatriciana o gli ombrelloni in spiaggia non alimentino innovazione e produttività, come invece si direbbe che facciano le fabbriche ad alto contenuto tecnologico.
In una situazione pesante, documentata dalle statistiche nazionali e internazionali, il sospetto che serva qualche correttivo per riequilibrare il piatto della bilancia dal lato dei lavoratori potrebbe venire perfino a una compagine tradizionalmente moderata-conservatrice. E invece il governo Meloni si accontenta di sbandierare il miglioramento dei dati occupazionali, il cui sistema di rilevamento è però sovente oggetto di critiche. Tra queste, in particolare, piuttosto diffusa la perplessità circa il fatto che sono considerati lavoratori “a tempo indeterminato” quelli assunti dalle agenzie interinali e “affittati” ai datori di lavoro reali per “missioni” che non devono sottostare ai limiti dei contratti a termine, ma che rappresentano comunque una forma di occupazione potenzialmente discontinua e certamente più debole dal punto di vista dei diritti: organizzare uno sciopero, magari per la sicurezza, in un’azienda presso la quale si è impiegati con la forma dello staff leasing, pare sia poco consigliato se si ha l’obiettivo di far durare a lungo il rapporto di lavoro. Tutto legale, beninteso, benché sempre pericolosamente vicino al confine col vecchio e formalmente deprecato caporalato. Ed è proprio l’ampliamento del lavoro “a somministrazione” uno degli obiettivi del disegno di legge governativo all’esame della Camera: una inedita “liberalizzazione completa”, denunciano le opposizioni. Molto criticate anche le norme per “automatizzare” le dimissioni del lavoratore o della lavoratrice dopo pochi giorni di assenze ingiustificate, che potrebbero essere anche dovute a cause di forza maggiore.
Ancora più interessante il caso del disegno di legge presentato da una senatrice di Fratelli d’Italia, Paola Mancini, sotto il titolo apparentemente neutro di “Semplificazioni in materia di lavoro e legislazione sociale”. L’intervento forse più controverso della proposta normativa riguarda l’estensione fino a due anni dei contratti a tempo determinato senza causale: talmente controverso che la stessa firmataria del disegno di legge ha poi presentato un emendamento correttivo. Tra le perle del provvedimento, la relazione vanta “le semplificazioni in materia di modalità di dimissioni del lavoratore padre e della lavoratrice madre”, materia delicatissima nel Paese delle dimissioni in bianco usate per decenni per licenziare le donne in gravidanza. Ma anche limiti al potere di sospensione dell’attività delle imprese che violano le norme in materia di salute e sicurezza.
Al di là dei dettagli, dei due disegni di legge per alcuni versi “paralleli” in discussione nei due rami del parlamento, è interessante notare appunto la tendenza, di cui si parlava all’inizio di questo articolo, quella cioè a proseguire lungo una strada che, dopo trent’anni, si credeva sufficientemente screditata: la ulteriore precarizzazione del lavoro, il taglio di costi e oneri burocratici per le imprese, che il più delle volte rappresentano garanzie e diritti per i lavoratori. Una strada debolmente contrastata solo nella stagione dei governi Conte, in particolare del primo, con il varo del cosiddetto “decreto dignità” e, in modo obliquo, anche con l’odiato (a destra ma non solo) reddito di cittadinanza; che ha funzionato, finché c’è stato, anche da salario minimo “di fatto”, riducendo l’attrattività del lavoro sottopagato e delle forme di sfruttamento estreme.
Ce ne sarebbe abbastanza per cominciare a elaborare un’agenda comune delle opposizioni, almeno di quelle meno legate alla catena di comando del mondo delle imprese. Ma è lecito nutrire dubbi, se si pensa alle reazioni gelide che una parte del Partito democratico ha riservato all’annuncio che la segretaria, Elly Schlein, avrebbe firmato i referendum “per il lavoro” promossi dalla Cgil contro le norme che facilitano i licenziamenti illegittimi, contro la liberalizzazione dei contratti a termine, e contro la deresponsabilizzazione delle società appaltanti in caso di infortuni sul lavoro. Non è finita, come si diceva, e non solo perché le destre vanno per la loro strada: anche perché la strada della costruzione di un’alternativa credibile appare decisamente di là da venire.