Fra qualche giorno saremo a quel “duello al sole”, per citare un famoso film degli anni ruggenti del western, fra Elly e Giorgia. Si tratta di un evento talmente scontato da risultare sorprendente. Vi proponiamo una sorta di breviario di considerazioni in avvicinamento, per meglio interpretarne, e forse perfino prevenirne, gli effetti. Il contesto lo prendiamo alla larga, ma poi nemmeno troppo. Il 3 novembre del 2008 venne postato online un grafico che fotografava la differenza di rilevanza sul web fra i due candidati allora in lizza per le elezioni presidenziali statunitensi, che si sarebbero tenute l’indomani: Barack Obama e John McCain. Incredibilmente il valore digitale coincise perfettamente con il distacco elettorale, che si misurò nelle urne il giorno seguente.
Per la prima volta, in maniera esplicita e spettacolare, la rete mostrava di essere una protesi della vita umana e non un luogo eccentrico di esibizioni tecnologiche. Cosa comportò questa coincidenza nelle modalità relazionali e organizzative a sinistra? La domanda dobbiamo conservarla in vista di quanto sta accadendo. Allora, sedici anni fa, un’età digitalmente antidiluviana, i dati erano ancora solo quantitativi. Si misuravano i contatti e la frequentazione dei siti. Oggi c’è la possibilità di raccogliere una vera cartella clinica su ogni elettore, ricostruendo una capacità di controllo delle masse come somma di un condizionamento di ogni singolo individuo. È la somma che non fa il totale, direbbe Totò.
Eppure, con quei pochi dati, nel 2008, si disegnò il primo grafo che dava forma dinamica al processo di formazione dell’opinione elettorale, afferrando perfettamente la dinamica dei voti. La chiave di interpretazione del successo di Obama, che surclassò il suo avversario sia nei voti virtuali sia in quelli reali, la diede lucidamente David Axelrod, il principale architetto della vittoria del giovane parlamentare di Chicago, che spiegò come Obama “non vinceva perché usava la rete per parlare con i suoi elettori, ma perché la usava per far parlare gli elettori fra di loro”. In sostanza, i democratici vinsero perché fecero partito in digitale.
È l’interattività, allora come oggi, il motore e la ragion d’essere di Internet, ed è in base all’interattività, ossia a una relazione tendenzialmente paritaria e permanente partecipativa fra soggetti distinti e distanti, che si misura l’efficacia di questa nuova modalità di vita. Stiamo parlando della nuova forma partito. Una modalità che è il risultato, e non la sostituzione, dei rapporti di produzione. Le forme di relazioni in rete sono la proiezione e la tecnica dei meccanismi con cui si produce quel valore che oggi si ricava appunto con uno scambio, tendenzialmente paritario e permanente, di simboli e informazioni. Una constatazione che dovrebbe rassicurare una cultura di sinistra, soprattutto se tenacemente marxista, che vede riconfermata, nell’analisi sociale, proprio quel legame tra la struttura e la sovrastruttura diversamente modulato ma non annullato.
L’elettorato a cui si rivolgeva Obama con un linguaggio e una strategia organizzativa coerente, era quello di un fronte liberal, che usciva dall’inverno dei neocons, che avevano condotto il Paese in una guerra senza uscita in Medio Oriente, e tendevano a comprimere in una logica autoritaria le opzioni libertarie che l’economia digitale proponeva. Dopo otto anni di pura declamazione di una visione bucolica della rete, senza attuare alcun intervento che ne modificasse la deriva monopolista, all’ombra della quale si costituirono incalcolabili fortune finanziarie, e su cui si basava una nuova élite tecnocratica che sembrava poter disporre del mondo, si registrò, ancora in rete, la reazione conservatrice e populista guidata da Trump, che mentre denunciava lo strapotere della Silicon Valley, raccogliendo i voti grazie a Cambridge Analytica, alterava drasticamente il libero arbitrio elettorale interferendo con la sfera di milioni di singoli elettori a cui si indirizzavano flussi personalizzati di propaganda mascherata. Come scrisse allora Marco Revelli, nel suo Populismo 2.0, “il populismo di Trump non si basa sulla voglia di rivolta ma sull’ansia di vendetta dei suoi elettori”. E quando si cerca vendetta non si va per il sottile, si usa quello che c’è, persino un miliardario avventuriero. Diciamo che Trump è stato il primo impresario di quella “rivoluzione passiva”, come avrebbe detto Gramsci, che, sulla spinta dell’eversione dei ceti dirigenti, riempiva il vuoto di prospettiva e mobilitazione che la sinistra lasciava sguarnito rispetto ai ceti popolari.
Sembrerebbe che questa lezione, ormai di storia politica, continui oggi a non essere metabolizzata né nella sua tecnica elettorale, né nella dinamica degli interessi e della rappresentanza intorno a cui ricostruire un protagonismo di sinistra. Quella che stiamo attraversando è l’ennesima campagna elettorale in cui la rete è usata come un grande sistema di consegna a domicilio del proprio messaggio, grazie a una complessa e costosa operazione di cartografia degli stati d’animo da strumentalizzare con le proprie proposte.
Giorgia è oggi l’ultima artigiana di un’alchimia reazionaria: la presidente del Consiglio, giocando sul vuoto di rappresentanza alternativa delle aree popolari, si traveste da Masaniello e annuncia la rivalsa degli ultimi, senza che naturalmente una sola delle sue decisioni o leggi mitighi in qualche modo il disagio e la povertà dei ceti marginali a cui si chiede il voto. Mentre la segretaria del Pd, ignorando completamente la talpa digitale che sta scavando ai bordi degli elettorati contendibili, e lasciando alla sirena ex missina l’affabulazione delle fasce più insicure del ceto medio-basso, cerca faticosamente di colpirla sui temi – quali l’antifascismo e lo stile comunicativo – che danno fastidio allo zoccolo duro dei suoi elettori, ossia alla vecchia opinione liberale e urbanizzata, insediata ai confini della pensione delle professioni intellettuali.
Dovremo, osservando quel duello, cercare di cogliere questi due aspetti: il linguaggio radicale e dedicato della premier, che parlerà a un elettorato già dissodato da contatti diretti e sobillatori, e la risposta bellicosa di una leader di sinistra che avrà poco in mano oltre il tentativo di azzoppare la sua avversaria su temi che non ne hanno impedito la spettacolare crescita elettorale. Due i bersagli grossi di questa partita: il ceto urbano globalizzato, che tendenzialmente potrebbe non votare, e le aree del pulviscolo produttivo, che devono decidere se far coincidere il voto sovranista con il fatturato europeista. In mezzo, le tribù della protesta, come i giovani pacifisti, contesi dalle liste protestatarie di confine, o la pancia di un allarme sociale che viene costantemente risucchiato da un micro-clientelismo locale.
Vedremo nei prossimi giorni come verrà preparato l’atteso evento dalle due parti. Due stili che indicano quella che Parag Khanna, nuovo sociologo del modello Singapore, nel suo libro Connectography, indica come la “competitività mediante connettività”. Sono la qualità e la dinamica dei contatti digitali che bisogna pesare e decifrare per capire chi può vincere.
Oggi il valore aggiunto – ce lo spiegano gli esperti – non è più il contatto e neanche la lettura dei messaggi, i famosi utenti unici, quanto piuttosto l’indice di condivisione e di replicabilità ad assicurare valore alla relazione. Bisogna ascoltare più che parlare – e soprattutto negoziare, costruendo rapporti contrattuali con ceti sociali e aree territoriali. È in questo gorgo di continuo marasma digitale, in cui il pulviscolo delle figure professionali si intrecciano e cercano una rappresentanza istituzionale, che si costruiscono le leadership e si stabilizzano i nuovi partiti a rete. Non è difficile, è difficilissimo, come proprio oggi potremo constatare, se, come si prevede, sarà fredda la risposta ai comizi digitali dei candidati. Si tratta di mutare radicalmente il ruolo del leader e la struttura di partito, rendendo tutto occasionale, provvisorio, momentaneo. Senza più alcuna rendita di posizione.