Tutto è rimasto all’incirca come cinquant’anni fa. Un po’ peggio, forse, ma nulla è cambiato nella sostanza. Verrebbe da citare Giorgio Caproni: “Nulla, da come non fu, è mutato”. La politica italiana, che pure ha visto eventi non da poco come la fine del comunismo e lo sdoganamento di un’estrema destra proveniente da Salò, ha da sempre per missione il mantenimento dello status quo sociale: nessuna riforma che abbia operato in profondità, né nella ridistribuzione del reddito né nella liberazione del lavoro dalla miseria dei salari da working poors o dalla maledizione delle morti bianche. Soltanto nella spettacolarizzazione, grazie al berlusconismo, si è andati molto avanti. Ed è questa a essere ripresa da una destra di governo postfascista o neofascista che sia, ma essenzialmente postberlusconiana, nel senso di un’eredità consapevolmente assunta.
È parecchio insidiosa l’apparente baggianata che consisterebbe nello scrivere sulla scheda elettorale semplicemente il nome proprio della presidente del Consiglio. Non si tratta solo di una mossa propagandistica, o del fatto che, candidandosi in tutte le circoscrizioni, Meloni cerchi il referendum su se stessa; a ciò eravamo preparati, e sappiamo bene quanto conti questa personalizzazione anche nei rapporti interni alla maggioranza di governo. Ma con la trovata del nome “Giorgia”, e con una sua capacità di autopresentazione che pare improntata a una consumata arte teatrale (da ragazza, Meloni deve avere frequentato qualche scuola di recitazione), la leader di Fratelli d’Italia sta facendo una prova generale di quel “premierato forte”, cioè a elezione diretta, che vorrebbe introdurre nell’ordinamento costituzionale.
La circostanza che ci si debba periodicamente occupare degli attacchi alla Costituzione repubblicana che, com’è noto, delinea un sistema di democrazia parlamentare, la tentazione opposta del “direttismo” e del plebiscitarismo che ogni decina d’anni si riaffaccia nella politica italiana, è una prova provata di quanto si diceva circa la generale stagnazione della vita pubblica in senso conservatore. Ci avevano già provato Berlusconi e Renzi, in modi diversi, a modificare la Costituzione nella direzione di un rafforzamento dei poteri dell’esecutivo – e andò male a entrambi, perché i successivi referendum bocciarono le loro riforme. Intanto, però, lo status quo veniva a essere consolidato attraverso quella pretesa riformatrice in senso deteriore: la conservazione sociale si faceva forte della possibilità di circoscrivere il campo del confronto politico su un terreno arretrato.
Ancora una volta, nel prossimo futuro, ci troveremo a dover condurre uno scontro intorno a qualcosa che trova nella baggianata del nome proprio sulla scheda il suo antefatto. Opporci allo stravolgimento della democrazia parlamentare in una forma di democrazia plebiscitaria, e allo sconquasso che ciò provocherebbe nell’intero edificio costituzionale, è il compito che ci è affidato. Anche se questo non farebbe parte della missione di una politica di sinistra. Al contrario, modificare la Costituzione sì, ma in senso progressista (per fare un esempio, riducendo il ruolo assegnato alla proprietà privata e ampliando quello dei “beni comuni”), sarebbe l’obiettivo a cui tendere.