La plenaria del parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza, durante la sua ultima sessione plenaria della legislatura, il 23 aprile a Strasburgo, il nuovo Patto di stabilità e di crescita, che fissa le regole da rispettare per i bilanci pubblici degli Stati membri e i modi e i tempi della “sorveglianza multilaterale” dei loro conti pubblici. L’accordo, che era stato raggiunto in precedenza con il Consiglio Ue, è stato adottato con 367 voti a favore, 161 contrari e 69 astensioni. Il nuovo Patto di stabilità è stato poi adottato formalmente, senza discussione, dal Consiglio Ue, oggi 29 aprile.
Impressionante, tra le astensioni, il numero dei voti provenienti dagli eurodeputati italiani: otto dagli eletti di Fratelli d’Italia (gruppo dei conservatori Ecr), sette da Forza Italia (Ppe), 15 dalla Lega (Identità e democrazia, estrema destra), 13 dal Pd (Socialisti e democratici), uno dai non iscritti (Giarrusso, ex 5 Stelle) e uno dal gruppo liberale Renew (Danti, Italia viva). Solo quattro italiani hanno votato a favore: due di Renew (Gozi di Italia viva, eletto in Francia, e Zullo, ex 5 Stelle), e due del Ppe (Lara Comi di Forza Italia e Dorfmann della Svp). Tutti gli altri italiani presenti hanno votato contro (tra i non iscritti, cinque dei 5 Stelle, più l’ex Pd Cozzolino, e poi altri due ex 5 Stelle, Castaldo di Renew e Corrao dei verdi). Più in generale, i voti contrari sono venuti soprattutto dal gruppo dei verdi (58), dai conservatori dell’Ecr (33) e dalla sinistra (The Left, 28), con un apporto considerevole anche dai Socialisti e democratici (15) e dai non iscritti (15).
L’astensione degli eurodeputati dei partiti di centrodestra la dice lunga sulle perplessità che il nuovo Patto di stabilità suscita anche nella maggioranza di governo, nonostante il fatto che, a negoziare l’accordo, ci fosse in prima persona il ministro leghista dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. A un giornalista che chiedeva come mai avesse accettato l’accordo, a margine dell’Ecofin di Lussemburgo del 12 aprile, lo stesso Giorgetti aveva riposto: “Noi avremmo votato la proposta della Commissione. Peccato che una larga maggioranza degli Stati membri non l’avrebbe votata; e quindi, com’è noto qui, in queste sedi bisogna ragionare per compromessi. Poi ci sono compromessi alti e compromessi bassi; ma la proposta della Commissione purtroppo non aveva consenso e maggioranza per poter passare”.
La proposta della Commissione, in effetti, era molto più semplice e lineare del complicato compromesso che alla fine è stato approvato, che ha integrato molte delle modifiche chieste dalla Germania (in particolare dal ministro delle Finanze, il “falco” liberale Christian Lindner) e dagli altri “frugali” (Olanda, Austria e Paesi nordici). Giorgetti non ha tutti i torti quando fa capire di essere rimasto quasi solo a difendere la proposta originaria, dopo che gli altri due grandi Stati membri, che avrebbero potuto opporsi ai “frugali”, Francia e Spagna, hanno ceduto in buona parte alle pretese di Lindner.
È lecito chiedersi se Parigi e Madrid (che oltretutto ha un governo a guida socialista, come d’altra parte la stessa Germania) abbiano ottenuto qualcosa in cambio. Per la Spagna, si può pensare che abbia svolto un ruolo l’appoggio della Germania alla candidatura di Nadia Calvino, allora ministra delle Finanze di Madrid, alla presidenza della Banca europea degli investimenti, alla quale è stata effettivamente nominata pochi giorni dopo l’Ecofin. Per la Francia è più complicato, ma l’ipotesi più accreditata (sebbene mai confermata ufficialmente) è che Parigi abbia puntato a un risultato che cercava da molti anni: quello di equiparare finalmente il nucleare alle rinnovabili nelle regole europee, che sono state negoziate negli ultimi mesi riguardo al sostegno pubblico per le fonti energetiche non di origine fossile (low carbon). Un risultato ottenuto in particolare con la riforma del mercato elettrico (approvata in via definitiva dal parlamento europeo l’11 aprile) e con il regolamento per il sostegno all’industria “a zero emissioni nette” (Net-Zero Industry Act), approvato a Strasburgo il 25 aprile.
Sui contenuti del nuovo Patto, la domanda da porsi è se sia ancora “stupido”, come lo definì, nell’ottobre 2002, l’allora presidente della Commissione, Romano Prodi. Ovvero se miri ancora, come le vecchie regole, unicamente alla stabilità finanziaria (cioè alla riduzione a tappe forzate del deficit e del debito pubblico), sacrificando a quest’obiettivo la crescita, com’è accaduto negli anni dell’austerità (2008-2013); o se finalmente siano stati fissati dei paletti per evitare di adottare politiche di bilancio pro-cicliche durante le crisi economiche, attribuendo una chiara priorità agli investimenti pubblici necessari per stimolare la ripresa in caso di recessione o bassa crescita, oltre che per finanziare gli obiettivi strategici europei dei prossimi anni: la “doppia transizione” verde e digitale, e il rafforzamento dell’industria della difesa.
Il nuovo Patto è composto da due regolamenti e una direttiva. Le modifiche essenziali stanno nei due regolamenti “gemelli”, uno sul “braccio preventivo” e l’altro sul “braccio correttivo” del Patto. Il voto di riferimento del parlamento europeo ha riguardato in particolare il “braccio preventivo”.
La proposta originaria della Commissione (aprile 2023) era incentrata su due pilastri principali, riguardanti i percorsi di aggiustamento di bilancio per i Paesi che non rispettano le due soglie prefissate dal Trattato di Maastricht: il 60% per il debito/Pil e il 3% per il deficit/Pil. Per ridurre il debito eccessivo, invece della vecchia e inapplicabile regola della riduzione di un ventesimo all’anno del debito/Pil eccedente il 60%, la proposta indicava un percorso di aggiustamento “su misura”, individualizzato per ciascuno Stato membro, con tempi più lunghi e più realistici per le correzioni: quattro anni, con la possibilità di proroga a sette anni per ammortizzare i costi delle riforme e degli investimenti raccomandati dall’Unione (in particolare per la doppia transizione, innovazione e difesa). Il percorso di aggiustamento (traiettoria di riferimento), nella proposta originaria, era determinato da un “singolo indicatore operativo”, basato sulla “spesa primaria netta” (quella cioè che non prende in considerazione la spesa per gli interessi, la parte controciclica dei sussidi di disoccupazione, le misure una tantum, e la spesa nazionale per i programmi comunitari che sono co-finanziati dagli Stati membri). Nel testo originario della Commissione, si prevedeva inoltre di tenere semplicemente sotto stretto controllo, con un limite annuale collegato alla crescita economica, l’andamento della spesa primaria netta del Paese interessato, senza definire una riduzione quantitativa annuale del debito, uguale per tutti i Paesi oltre la soglia del 60%. Insieme con un’analisi caso per caso della sostenibilità del debito, questo garantiva il carattere “su misura” dei percorsi di rientro. L’obiettivo da assicurare era che, alla fine del periodo previsto dal piano di aggiustamento, il livello del debito pubblico fosse inferiore a quello iniziale, e avviato su un percorso stabile di riduzione. Era previsto anche un controllo della Commissione, a scadenza semestrale, per individuare e correggere eventuali “deviazioni significative” nei percorsi di aggiustamento. Il secondo pilastro della proposta della Commissione riguardava la regola del deficit, e conteneva l’unico dato quantitativo fisso di riduzione uguale per tutti nella proposta originaria: per i Paesi con un rapporto deficit/Pil oltre il 3% era previsto un aggiustamento strutturale minimo annuale di bilancio pari allo 0,5% del Pil, per ridurre il disavanzo, fino al raggiungimento della soglia del 3%.
Che cosa è stato cambiato dai negoziati tra gli Stati membri nel Consiglio Ue, e poi dall’accordo del Consiglio con il parlamento europeo? Innanzitutto, nel regolamento sul “braccio preventivo” sono state aggiunte due “salvaguardie”, che fanno rientrare dalla finestra, dopo che la Commissione le aveva cacciate dalla porta, le riduzioni quantitative annuali del deficit e del debito uguali per tutti, tanto care ai tedeschi e ai “frugali”.
La prima salvaguardia riguarda la “sostenibilità del debito” (nel nuovo art.7), e prevede che i Paesi con un debito/Pil superiore al 90% (come l’Italia) debbano ridurlo mediamente di almeno un punto percentuale all’anno, fino a raggiungere il 90%; per i Paesi con un debito tra il 90% e il 60% del Pil, la riduzione media annua dovrà essere invece di almeno mezzo punto percentuale. La seconda salvaguardia, per la “resilienza relativa al disavanzo” (nuovo art.8), impone a tutti i Paesi con il debito/Pil sopra il 60%, o con il deficit/Pil oltre il 3%, una “traiettoria di riferimento”, con una riduzione del disavanzo che continuerà anche dopo che avranno raggiunto la soglia del 3%, fino a raggiungere l’1,5% del Pil, per mantenere un “cuscinetto” (“margine di resilienza comune”) che permetta uno spazio di bilancio per gli investimenti e le riforme. Inoltre, a questi Stati membri sarà imposto un obbligo di “miglioramento annuale del saldo strutturale primario”, pari a 0,4 punti percentuali di Pil nei percorsi di aggiustamento di quattro anni, che sarà ridotto a 0,25 punti percentuali in caso di prolungamento del percorso a sette anni (quando ci sono gli investimenti e le riforme considerati prioritari dall’Unione).
A tutto questo bisogna aggiungere, poi, il cosiddetto “conto di controllo”, relativo alle deviazioni massime consentite dai percorsi di aggiustamento basati sulla limitazione della spesa primaria netta (art.2 dell’altro regolamento, quello sul “braccio correttivo”): per i Paesi con rapporto debito/Pil superiore alla soglia del 60%, la deviazione massima annuale è stata fissata allo 0,3% del Pil, e allo 0,6% per quella cumulativa (per tutto il periodo dell’aggiustamento). Se viene accertata una deviazione superiore a questi limiti, il Paese interessato rischia una procedura per deficit eccessivo, con l’imposizione di un “percorso correttivo di spesa netta”, per il rientro nella traiettoria di riferimento, con un aggiustamento strutturale minimo annuale pari allo 0,5% del Pil. Se lo Stato membro continua a non rispettare l’intimazione da parte del Consiglio Ue di adottare il percorso correttivo della spesa netta indicato, si può arrivare alle sanzioni (art.12 del regolamento sul “braccio correttivo”): cioè a un’ammenda pari, al massimo, allo 0,05% del Pil ogni sei mesi, fino a quando lo Stato membro non abbia dato seguito effettivo all’intimazione.
Bisogna considerare, comunque, che nel valutare le deviazioni dalla “traiettoria di riferimento” la Commissione e il Consiglio prenderanno in conto una serie di “fattori significativi” mitiganti, tra cui la spesa per le riforme e gli investimenti previsti dal piano di ripresa NextGenerationEU (fino al 2027) e dalle “raccomandazioni specifiche per Paese” (presentate dalla Commissione ogni anno nel quadro del “semestre europeo”), l’aumento degli investimenti pubblici nel settore della difesa, e i contributi finanziari volti a conseguire le “priorità comuni dell’Unione”: la realizzazione di “una transizione equa, verde e digitale, compresi gli obiettivi climatici”; la “resilienza sociale ed economica, compreso il pilastro europeo dei diritti sociali”; la “sicurezza energetica”; e “se necessario, lo sviluppo di capacità di difesa”.
Infine, in cambio delle molte concessioni ai “frugali”, è stata introdotta una nuova clausola di flessibilità, tuttavia solo temporanea (per gli anni 2025, 2026 e 2027), su richiesta della Francia (con il sostegno dell’Italia): dall’aggiustamento strutturale minimo annuale dello 0,5 del Pil, richiesto ai Paesi con un disavanzo oltre il 3% del Pil e sotto procedura per deficit eccessivo, potrà essere dedotto l’aumento della spesa per il servizio del debito, dovuto a eventuali aumenti dei tassi d’interesse o al nuovo debito contratto sui mercati per finanziare gli investimenti e le riforme prioritari per l’Unione. Questo dovrebbe permettere di diminuire di uno o due decimi di punto percentuale (in termini di Pil) la correzione annuale richiesta.
Dopo il voto del 23 aprile, il commissario Ue all’Economia, Paolo Gentiloni, ha affermato che il Patto di Stabilità è diventato comunque “un po’ più intelligente” con la nuova riforma. “Naturalmente – ha detto il commissario incontrando la stampa italiana a Strasburgo – sappiamo che si tratta di un compromesso, sappiamo che la questione è da sempre una delle questioni più complicate e più controverse a livello europeo; ma avere raggiunto questo compromesso e poterlo varare con il voto finale di oggi a larghissima maggioranza del parlamento europeo è molto positivo. Anche perché questo compromesso conserva alcuni degli aspetti fondamentali della proposta della Commissione, pur modificandola, ovviamente: in primo luogo – ha spiegato Gentiloni – una maggiore gradualità nei percorsi di aggiustamento di bilancio; in secondo luogo la possibilità, anzi l’impegno, per ciascun Paese di disegnare il proprio percorso di riforme, investimenti e prudenza di bilancio nei prossimi quattro-sette anni; e in terzo luogo, grazie anche al contributo del parlamento europeo, uno spazio certamente maggiore per gli investimenti, rispetto alle regole esistenti. Si tratta, in particolare, di investimenti legati alla difesa o al cofinanziamento di fondi europei, o alle nostre grandi priorità come Unione europea”.
A Romano Prodi, che era a Strasburgo il giorno dopo, i giornalisti hanno chiesto se fosse d’accordo con Gentiloni. “Quando dissi che il Patto di stabilità era stupido – ha ricordato l’ex presidente della Commissione ed ex premier italiano –, dopo venti minuti mi volevano fucilare sul campo. Ma era una riflessione seria, su cui poi, dopo anni, mi hanno dato ragione: nel senso che tutto quello che è politica economica non può essere rigido. Tu puoi avere un deficit anche grandissimo quando la situazione ha bisogno di un’iniezione di risorse, e devi essere più attento quando le cose vanno bene. Politica economica vuol dire flessibilità”. Con questa riforma, “un po’ di progresso è stato fatto: è stato reso un po’ più flessibile nella durata degli anni, per l’adattamento”, ha rilevato Prodi. “Però – ha concluso – non è il cambiamento di cui si avrebbe bisogno per un’Europa che fa il suo grande salto in avanti nella politica economica comune. Questo no. Lo ha detto Gentiloni stesso, lo dicono tutti”.