(Questo articolo è stato pubblicato il 29 aprile 2024)
Sta diventando sempre più evidente come quello che il giornalista Jeff Sharlet chiama “momento fascista globale” sia uno scontro ideologico che si svolge ancora una volta sui corpi delle donne; e ciò è tanto più vero nel nostro Paese, che non ha mai fatto fino in fondo i conti col passato del ventennio nero, ed è da sempre alle prese con la presenza ingombrante del Vaticano. La televisione pubblica italiana ci restituisce un quadro tragicomico: un gruppo di uomini naturalmente sprovvisti di utero, un classico muro di giacche e cravatte, si permette di discutere serenamente di aborto. Sembra la scena di una fiction, ma è l’Italia del 2024.
Purtroppo non si tratta solo dei mezzi d’informazione, se così si possono definire; il problema è di natura politica e incide sulla vita di migliaia di cittadine. Al Senato, la scorsa settimana, è stata approvata una norma che sancisce l’entrata dei gruppi antiabortisti “pro vita” all’interno dei consultori familiari. È l’ennesimo attacco al diritto della donna di scegliere sul proprio corpo senza condizionamenti. L’emendamento, proposto dal deputato di Fratelli d’Italia Lorenzo Malagola, si inserisce nel decreto sul Pnrr. Con i soldi forniti dall’Europa per riprenderci dalla più devastante catastrofe sanitaria degli ultimi cento anni, il governo, invece di destinare i fondi all’educazione sessuoaffettiva o ai centri antiviolenza, finanzia le associazioni ultraconservatrici che fanno assomigliare l’Italia all’Ungheria di Orbán.
Mentre l’Unione europea propone di introdurre l’interruzione volontaria di gravidanza nella Carta dei diritti fondamentali, e la Francia di Macron – non certo con un governo di sinistra – ne promuove addirittura l’inserimento nella Costituzione, qui le forze progressiste, spaventate dalla perdita di consensi da parte dei cattolici oscurantisti, hanno per anni lasciato che la legge avesse dei punti così vaghi da potere essere piegati a piacimento. La famosa 194 del 1978, infatti, non protegge affatto l’aborto, ma lo avalla semplicemente, e sappiamo bene che un diritto che non viene garantito non è un diritto.
Baluardo del nazionalismo sovranista occidentale, il governo Meloni non considera neanche i dati. Il numero delle interruzioni volontarie della gravidanza è in continuo calo negli ultimi trent’anni, riguardando cinque donne su mille, rispetto alle quindici su mille del 1985. Non solo, nel nostro Paese sarebbe inutile ostacolare ulteriormente la pratica, visto che, secondo l’ultimo report di Amnesty International, oltre il 60% dei medici si dichiara obiettore. Fare entrare gli ultraconservatori nei consultori è un affronto alle grandi battaglie femministe che ne hanno determinato l’apertura nel 1975, con l’intenzione di creare luoghi dedicati alla salute della donna, alla libera scelta e all’autocoscienza.
Jacopo Coghe, ennesimo uomo sprovvisto di utero, portavoce dell’associazione Pro Vita & Famiglia considera l’autodeterminazione “un vuoto slogan politico”. A lui, come agli altri (e alle altre), bisognerebbe ricordare che al di là della rivendicazione sociale, l’aborto volontario è sempre esistito, come mostrano le prime evidenze scritte che risalgono all’antico Egitto (papiro di Ebers, circa 1550 a.C.). Limitare questo diritto, quindi, non vorrebbe dire cancellarne la pratica, ma solo tornare a un contesto fatto di silenzi, di pratiche mediche rischiose e di improbabili geografie della clandestinità, oltre che a una disparità fatta di classismo sui corpi. Ogni volta che si ostacolano dei diritti fondamentali – come quello di movimento, per fare un esempio attuale – si crea un substrato di persone che costruisce tristi fortune sulle difficoltà altrui.
Forse la vicedirettrice del Tg1, Incoronata Boccia, prima di affermare che “l’aborto è un delitto e non un diritto”, dovrebbe leggere le testimonianze delle donne che hanno abortito prima del 1978, col cuore in gola e la paura di essere processate per una loro libera scelta, spesso condizionata da tremende situazioni familiari. Dovrebbe parlare con chi, poco più che bambina, ha rischiato la vita per il contesto inadatto del trattamento. Inoltre, lei, come Meloni, dovrebbe pensare ai giovani già nati nel nostro Paese e alle difficoltà che affrontano.
Secondo l’ultimo rapporto del ministero della Salute, le donne che abortiscono in Italia hanno in media tra i 25 e i 34 anni, e la metà di loro ha già figli. Se il Paese è a crescita zero non è certo perché esiste l’aborto, ma perché non c’è una reale volontà politica di agire sul problema, di creare condizioni lavorative favorevoli per tutte e per tutti. Un esempio è il congedo di paternità, quasi inesistente in Italia. E ci si dimentica spesso che nessuna vorrebbe ricorrere a una pratica invasiva a livello fisico e psicologico; se lo fa, è perché lo ritiene inevitabile – e deve essere libera di farlo. L’unico modo per evitare che il corpo delle donne diventi un terreno per pratiche di controllo, che farebbero assomigliare la storia italiana a un romanzo di Margaret Atwood, sembra essere la promozione di un accordo a livello europeo. L’ala progressista rimasta lucida all’interno dell’Unione, o quello che ne resterà dopo le elezioni di giugno, dovrà contrastare la spinta dei gruppi reazionari e proteggere in ogni modo i diritti delle donne.