Abbiamo già osservato (qui) come l’elefante nella stanza del dibattito delle elezioni presidenziali messicane sia quello della violenza politica, che sta attraversando il Paese. La candidata favorita, Claudia Sheinbaum, ha iniziato il primo dibattito elettorale (il 7 aprile scorso) con un ringraziamento al corpo diplomatico messicano per il suo coraggio di fronte alla recente irruzione delle forze di polizia nell’ambasciata in Ecuador, dove si era rifugiato un ex dirigente ecuadoregno colpito dalla giustizia: un episodio che ha comprensibilmente creato un allarme internazionale. Tuttavia, alcuni giorni prima dell’atteso dibattito, il sindaco di Churumuco, Guillermo Torres Rojas, e Gisela Gaytan, candidata sindaca a Celaya, entrambi esponenti di Morena, lo stesso partito della Sheinbaum, erano stati ammazzati. Non una parola su questo. Perché? Una possibile risposta sta nel fatto che la disuguaglianza sociale, la discriminazione delle comunità indigene e l’uso indiscriminato della forza di Stato – con annessa impunità per polizie, militari, e gruppi paramilitari – hanno pian piano “svalutato” il valore della vita in Messico. Si uccide per togliere di mezzo avversari politici, per risolvere contenziosi su campi e proprietà, per rubare pochi pesos o per vendicarsi di qualche sgarro.
Una condizione che si è creata negli ultimi anni e che – secondo molti osservatori – si è probabilmente intensificata a partire dall’assassinio di Luis Donaldo Colosio, nel marzo del 1994. L’omicidio del candidato presidente del Pri (lo storico Partito rivoluzionario istituzionale che ha retto ininterrottamente il Messico per settantadue anni), avvenuto in circostanze mai totalmente chiarite, ha rappresentato per il Paese un trauma collettivo paragonabile all’assassinio di Aldo Moro in Italia o di John Fitzgerald Kennedy negli Stati Uniti. Si tratta di uno di quegli eventi che hanno il potere di creare un prima e un dopo, di congelare e deviare un processo storico, creando insicurezza e sfiducia nella coscienza collettiva.
Colosio aveva iniziato la sua campagna elettorale condizionato dalla storica insurrezione del primo gennaio 1994 da parte dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) nel Chiapas. In un discorso pronunciato di fronte al Monumento della rivoluzione messicana, a Città del Messico il 6 marzo 1994, in occasione dell’anniversario del Pri, Colosio aveva rotto con la politica neoliberale del suo partito e con l’allora presidente Carlos Salinas de Gortari. Diciassette giorni dopo, alla conclusione di un comizio improvvisato nella colonia popolare Lomas Taurinas (uno dei molti insediamenti irregolari presenti a Tijuana, alla frontiera con gli Stati Uniti), viene raggiunto da due proiettili calibro 38 all’orecchio destro e all’addome. Nella confusione più totale, le forze dell’ordine catturano un uomo di 23 anni, Mario Aburto Martínez. Ma fin da subito si rincorsero le voci riguardo a un possibile scambio di persona. L’uomo presentato alla stampa, in un primo momento, sembrava essere di costituzione più robusta, con capelli più chiari, e non portava segni di ematomi sul viso, come invece Mario Aburto.
La figura di rottura che Colosio aveva rappresentato per il suo partito, e le cause incerte del suo assassinio, fecero emergere diverse teorie del complotto. La più comune vuole che il mandante sia stato l’allora presidente Salinas de Gortari e che Mario Aburto, l’assassino reo confesso, sia in realtà innocente e i veri colpevoli lo abbiano usato come capro espiatorio. Nella controversia, è entrato persino l’attuale presidente uscente, Andrés Manuel López Obrador (detto Amlo), che nel 2021 si è dichiarato disponibile a riaprire il caso e proteggere Aburto. “Se può esprimere, dimostrare, di essere stato torturato, di essere minacciato, ed è per questo che è rimasto in silenzio, se c’è un’altra versione, lo Stato messicano lo proteggerebbe”, ha dichiarato Amlo nell’ottobre di quell’anno. Il figlio di Colosio, Luis Donaldo, sindaco della importante città industriale di Monterrey e – dopo essere stato il candidato presidenziale del suo partito, favorito nei sondaggi – senatore per il Movimiento ciudadano, non ha tuttavia gradito questa incursione, accusando Amlo di politicizzare la ripresa delle indagini sull’omicidio del padre.
Su questa incredibile vicenda, che non cessa di suscitare interesse, sono stati versati fiumi di inchiostro; ci sono anche un eccellente documentario (“1994” di Diego Enrique Osorno) e una serie Netflix. Quello che è importante osservare è soprattutto il carattere di spartiacque costituito da questo evento per la delegittimazione dello Stato e la diffusione della violenza politica. “Il patto costituzionale che era arrivato dopo la rivoluzione messicana è rotto. Ciò che emerge è una molteplicità di poteri all’interno e all’esterno dello Stato che contestano il presidente della Repubblica e lo Stato stesso per il monopolio della violenza legittima”, ha affermato Flavio Meléndez, psicoanalista lacaniano e studioso della violenza.
Il crollo del sistema politico incentrato sul Pri ha avuto dunque la conseguenza di allentare il governo statale su diversi territori del Paese, caduti in mano alla criminalità organizzata. Come la storia del narcotrafficante più famoso del Messico – Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, detto “El Chapo” – ha rivelato in maniera esemplare, il Pri era ben consapevole di non poter sconfiggere il narcotraffico, ma riusciva a controllarlo costruendo una governance insieme alla Dea (Drug Enforcement Administration, la potente polizia antidroga degli Stati Uniti) e ai cartelli dei narcotrafficanti stessi. Saltato questo sistema, accade sempre più spesso che i narcos si sostituiscano allo Stato nel controllo diretto del territorio, volendo quindi imporre i loro candidati politici. “È sempre più chiaro chi esercita il potere reale nei territori dove c’è la criminalità, non importa quale partito sia al potere”, ha detto Vicente Sánchez, esperto di sicurezza e politica presso il College of the Northern Border, commentando l’omicidio di Gisela Gaytán nello Stato di Guanajuato: “sono ancora i gruppi della criminalità organizzata a decidere chi sono i candidati”.
Occorre tuttavia usare cautela nel descrivere il Messico come una “narcodemocrazia” o un “narco-Stato”. La dinamica attuale è più complessa, e il crimine organizzato è tra gli attori protagonisti ma non è l’unico. Spesso succede che la politica o il potere economico si affidino ai gruppi criminali per realizzare i propri scopi. Il giornalista italiano Federico Mastrogiovanni, nel suo libro Ni vivos ni muertos: la sparizione forzata in Messico come strategia del terrore (2014), ha documentato la catastrofe umanitaria avvenuta nell’irresponsabile “guerra contro il narcotraffico” promossa dal governo del presidente Felipe Calderón Hinojosa – al potere dal 2006 al 2012 –, e appoggiata dagli Stati Uniti, inquadrandola in una ipotesi di lettura sul rapporto tra politica, multinazionali dell’energia e narcotraffico.
Addirittura, secondo Oswaldo Zavala, professore di letteratura e cultura latinoamericana alla City University di New York, non sarebbe il narcotraffico il principale generatore di violenza politica in Messico, quanto piuttosto il fondamentale pretesto utilizzato per legittimare la violenza militare, il controllo sociale delle comunità locali, l’espropriazione del territorio e il saccheggio delle risorse naturali, in complicità con gli Stati stranieri (Stati Uniti e Canada in primis). Nel suo provocatorio libro Los cárteles no existen: narcotráfico y cultura en México (2018), Zawala afferma che l’esperienza della violenza si è radicalizzata proprio da quando l’esercito ha iniziato a intervenire. Da quel momento, il discorso ufficiale si è concentrato sulla colpa del narcotraffico, anche se in realtà il Paese sarebbe sotto il controllo dell’esercito, che continua ad assorbire cifre record del bilancio pubblico del governo federale anche sotto la presidenza di Amlo. A fare le spese di questa militarizzazione antidroga, secondo Zawala, sono soprattutto i giovani poveri, di pelle scura e senza istruzione, che nascono e muoiono ai margini delle principali città messicane. Per fortuna, c’è chi dice no a questa escalation della violenza. Politici che continuano a candidarsi, nonostante tutto, giornalisti messicani e stranieri che rischiano la vita per fare indagini scomode (su cui questo giornale ha già scritto qui), movimenti sociali (soprattutto quello delle donne) e comunità locali.
Tuttavia, mentre stiamo scrivendo questo articolo, la conta dei morti continua sinistramente ad aumentare. Noé Ramos, candidato sindaco di Ciudad Mante in Tamaulipas, per la coalizione Fuerza y corazón de México (composta dai partiti Pri, Pan e Prd) è stato ucciso, venerdì 19 aprile, da un uomo che lo ha aggredito con un coltello, mentre faceva campagna elettorale. Nel frattempo, Alberto García, candidato di Morena a sindaco di San José Independencia, Oaxaca, è stato trovato morto dopo essere stato rapito. Domenica prossima, ci sarà l’atteso secondo dibattito elettorale in televisione. Le candidate Claudia Sheinbaum e Xóchitl Gálvez, e il candidato Jorge Álvarez Máynez, avranno il coraggio di vedere l’elefante o preferiranno le solite scaramucce sulla corruzione?