Le università sono, fin dal Medioevo, il luogo in cui si coltivano un pensiero critico e un dissenso sistematico, diventati nel tempo antidoti ai nazionalismi e alle guerre. L’università svolge il suo ruolo quando coltiva il dubbio, distingue, discute, argomenta: non quando condanna o proibisce. E soprattutto fa male il suo lavoro se obbedisce ai governi o, peggio ancora, quando ne diventa un docile strumento.
Cos’è successo in questo ultimo mese? Ripercorriamo alcuni passaggi. La mozione del Senato accademico della Scuola Normale di Pisa chiedeva al ministero degli Esteri di “rivalutare”, alla luce dell’articolo 11 della Costituzione, il bando “per la raccolta di progetti congiunti, per l’anno 2024, sulla base dell’Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica tra Italia e Israele”. Non si vuole la chiusura dei rapporti con le università israeliane, soltanto rivalutare un certo protocollo. È un aspetto centrale, ma in pochi lo spiegano: non si tratta di convenzioni e accordi tra liberi atenei, quanto piuttosto tra due governi: quello italiano e quello israeliano.
Il Consiglio per i diritti umani dell’Onu chiede che Israele sia condannato per crimini di guerra a Gaza. Come sarebbe possibile collaborare non con le libere università di quel Paese, ma con il governo responsabile di quei crimini? Non si può condannare l’Università di Torino che a quel bando ha deciso di non aderire. Essere in relazione, del resto, non vuol dire tacere. L’avversario non è l’università di Tel Aviv o quella di Mosca, tanto meno i loro studenti e ricercatori. L’avversario è l’attuale governo israeliano, in rotta di collisione con gli stessi Stati Uniti, l’avversario è Putin, l’avversario è Hamas (avversari, del resto, dei loro stessi popoli). In Paesi in cui non c’è un sistema democratico resiste tuttavia un residuo dissenso. È una contraddizione ben nota: sono le università dell’Iran a guidare la ribellione al regime.
Pensiamo quindi che sia un errore boicottare le università di Israele, come lo è stato interrompere le relazioni con quelle russe o con quelle palestinesi. Rompere le relazioni tra comunità di studiosi e studenti di Paesi diversi, significherebbe uccidere l’ultima speranza di costruire argomenti comuni per ribellarsi alla follia omicida di governi che conducono il mondo al disastro. “Non intendiamo rispettare direttive che possono creare un’atmosfera di maccartismo e di denuncia reciproca nei campus”. Queste le parole scritte – mentre piangevano i loro stessi studenti, vittime dell’attacco di Hamas – dai rettori di nove università israeliane, che si sono rifiutati di sottostare a una direttiva del Consiglio superiore per l’educazione, che chiedeva di denunciare ogni complicità intellettuale con Hamas. Le università sono comunità plurali, per definizione, aperte, perfino ribelli, la cui parte migliore lotta costantemente al fine di affrancarsi dai rispettivi governi, rivendicando la libertà del pensiero critico. Non sono caserme.
Il rapporto tra università e poteri pubblici, in Italia, è un nodo cruciale. Nel dopoguerra si pensò di introdurre per i professori universitari un giuramento di fedeltà costituzionale, memori di quello imposto dal fascismo nel 1931, ma l’ipotesi sfumò. L’università doveva essere quasi l’avamposto di una comunità semplicemente umana, sciolta da qualsiasi ortodossia. Oggi il problema in Italia non sono le manifestazioni degli studenti, piuttosto l’uso dei manganelli da parte della polizia, la costante intromissione di una politica che interviene sulle idee e sulle parole dei docenti, chiedendo dimissioni o tentando censure. Se negli ultimi mesi abbiamo visto atti di violenza, sono stati gli studenti a subirli.
A Gaza sta succedendo qualcosa di enorme: i ragazzi e le ragazze stanno protestando e fanno bene. Non c’è alcuna particolare emergenza nelle manifestazioni per Gaza. Non spetta al capo del governo dire come si deve manifestare. Le studentesse e gli studenti gridano cose che si possono condividere o no. Personalmente, condivido fino in fondo la richiesta di “smilitarizzare” le università italiane. Molta ricerca scientifica, infatti, ha applicazioni militari. La scienza ha una responsabilità che non può essere elusa. E il rapporto tra università e sviluppo di tecnologie militari è un fatto reale.
Il punto, comunque, non è di essere d’accordo o meno con ciò che dicono le studentesse e gli studenti: è permettere loro di dirlo. Gli studenti chiedono di poter parlare e di essere ascoltati. Dovremmo preoccuparci se non lo facessero. La libertà di parola è un diritto. Si può discutere delle forme e degli obiettivi delle contestazioni finché si vuole, ma che ci siano almeno alcuni giovani e alcuni settori della nostra opinione pubblica che non pensano soltanto agli scontri tra Salvini e Meloni, o alle gaffe dei vari Emiliano, e vedano le decine di migliaia di morti a Gaza, la tragedia israelo-palestinese e la minaccia di una terza guerra mondiale, è un’ottima notizia.
Preoccupa solo un aspetto: i limiti della capacità di argomentare che vengono dolorosamente a galla. Ma qui la responsabilità è del sistema educativo in generale, per aver accettato un modello votato più a formare un disciplinato “capitale umano” che non ad alimentare un robusto e attrezzato pensiero critico.