Le parole di papa Francesco – alzare la bandiera bianca per negoziare – sono parole rivoluzionarie, di amore, di pietà. Di fronte all’inevitabilità della guerra, e dei morti, negoziare introduce una possibile altra via: quella di far prevalere la vita rispetto alla morte, l’accordo rispetto alla guerra, l’amore rispetto all’odio. Tutt’altro che resa, che sottomissione al potere del nemico, come affermano (in mala fede) i media e i capi di Stato di tutto il mondo. Si tratta di una concezione alta che dà onore e forza al più debole dei duellanti. Quante vite, quante sofferenze possono essere risparmiate con questo gesto di dignitosa umiltà? Chi confonde il negoziare con la resa è colui che non partecipa alla guerra, ai suoi atroci massacri, e guarda il campo di battaglia dall’alto di una collina, o, peggio, è colui che ha interesse a fomentarla, a ricavarne profitto. Così sono gli Stati schierati perché il conflitto continui, fino al paradosso: che con una mano distribuiscono armi e, con l’altra, gli aiuti umanitari, perché la fabbrica di armi continui la sua mortifera produzione.
Per i duellanti non c’è scampo, costretti a combattere per conquistare territori, come i gladiatori nel circo, costretti a massacrarsi per la gioia del pubblico; un pubblico feroce e cinico che assiste allo spettacolo di morte e tifa perché il massacro continui senza soste. La voce dei soldati e della povera gente non viene ascoltata, come nella poesia di Brecht:
“La guerra che verrà / non è la prima. / Prima ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima / c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente / faceva la fame. / Fra i vincitori /
faceva la fame la povera gente egualmente.”
Questi versi, questi temi – i più poveri che soffrono la guerra –, non appaiono mai nei notiziari della televisione: i morituri non contano, oscurati dalle ragioni della guerra. Le nazioni discutono, giudicano le ragioni della guerra dimenticando coloro che vanno al massacro. Nella guerra russo-ucraina, i militari rastrellano per le strade i volontari, li cercano nelle carceri e tra i poveri per mandarli al fronte. Li usano come carne da macello, in nome di valori come patria, onore, vittoria; parole care ai mandanti della guerra, ma incomprensibili per i cittadini costretti a combattere.
I soldati, spesso loro malgrado, sono costretti a uccidere il nemico, un altro soldato come loro, per non essere uccisi. Prima o poi prenderanno l’abitudine (e forse anche il piacere) di uccidere quanti più nemici, senza più provare alcun senso di colpa col risultato di disumanizzarsi, di diventare macchine di morte. Tornati a casa, quando la guerra sarà finita (per quelli che sopravviveranno), cosa racconteranno ai propri cari e agli amici? Saranno dichiarati eroi? Eroe è chi ha ucciso più nemici, chi ha impedito che altri torneranno anch’essi alle loro case e saranno rimpianti dai loro cari?
Che umanesimo è questo? Quale religione afferma che uccidere il proprio fratello è un atto di coraggio del quale si è addirittura premiati? Nel mondo animale, nessuna bestia ne uccide un’altra per il solo piacere della vittoria. E la guerra, da qualunque lato la si guardi, è sempre una guerra civile, come ricordava Cesare Pavese, una guerra tra fratelli che ambirebbero a vivere nella pace circondati dagli affetti dei loro cari. E dei caduti cosa facciamo? Soltanto per loro la guerra è finita davvero.