“Voi che siete il sale della terra, se siete sciapi voi chi mai potrà insaporirvi”. Con questo versetto del Vangelo di Marco, nei primi anni Settanta, Lucio Magri concludeva un’affollatissima assemblea operaia del Manifesto (inteso come gruppo politico), al Lirico di Milano, dando mandato ai quadri di quella esperienza di essere sale e miele, per rimanere nella parabola evangelica, di un movimento che pareva in fase ascendente. Non era iattanza o cieco orgoglio di partito, ciò che faceva dire al leader di quel movimento, appena radiato dal Pci, che in quella sala erano riuniti fra i migliori quadri operai di quella stagione.
La selezione politica e ideologica aveva effettivamente “profilato”, come si dice oggi, una decina di dirigenti di fabbrica di grande spessore, capaci di declinare la stagione di lotte intense con una cultura politica complessiva estremamente ricca, in cui la forzatura verso quella pratica degli obiettivi e maturità del comunismo, che caratterizzava la proposta politica del Manifesto, era saldamente agganciata con un lucido senso di appartenenza alla storia del comunismo italiano. Una creativa attualizzazione della linea dell’unità nella diversità.
Questo per dire quanto avesse ragione Aldo Garzia, allora giovanissimo quadro universitario, ma già uno dei più avvertiti interpreti della riflessione magriana, quando scriveva che “quei quadri sono il punto più avanzato di un altro comunismo”. L’aggettivo “altro” era un fiore all’occhiello che teneva saldamente unita quella comunità. “Altro” – per separarsi dal socialismo realizzato, e da quella traiettoria imboccata dal gruppo dirigente del Pci, che usciva a destra dall’esperienza stalinista. “Altro” – anche per confermare che, comunque, di comunismo si doveva e poteva parlare nel cuore dell’Occidente avanzato, proprio per quella lezione marxista che indicava come fosse decisivo misurarsi con il vertice dello sviluppo per dare forma allo scontro di classe. “In ogni epoca”, scriveva Marx, “è una sola la forma di produzione che dà il tono a tutte le altre”. Allora era già il toyotismo, con le sue varianti rispetto all’appiattimento della catena fordista, privilegiata dal Gasparazzo di “Lotta continua”.
Oggi, verrebbe da chiedersi, qual è la forma di produzione del valore a cui guardare per contrastare la testa del capitalismo? Questa la domanda che campeggiava anche a Rimini, dove un centinaio di compagni superstiti di quell’esperienza politica, legati dal ricordo e dall’eredità di Lucio Magri, che scelse di andarsene nel 2011, si sono ritrovati nello scorso fine settimana, raccogliendo l’appello che, da qualche anno, viene lanciato regolarmente da Luciana Castellina con Famiano Crucianelli, Massimo Serafini e Vincenzo Vita e, finché è stato con noi, Aldo Garzia.
Una nuova alternativa al capitalismo o un’alternativa al nuovo capitalismo? Come sempre la giustapposizione di un aggettivo o di un avverbio cambia la visione del marxismo e le conseguenze politiche del movimento del lavoro. Crisi nel capitalismo o crisi del capitalismo? Un altro mantra su cui abbiamo ballato periodicamente, in diverse fasi del dibattito a sinistra. A Rimini il confronto si è incentrato su questo dualismo: cambia la dinamica della crisi o il capitalismo scavalca la crisi con una nuova dinamica? Un quesito non retorico e tanto meno accademico, affrontato attraverso le esperienze, meglio ancora, le biografie politiche di quei compagni che hanno mantenuta viva la passione e l’impegno, declinandoli in modi e forme diverse.
I quadri di matrice sindacale, per la parte che ancora è in attività, hanno trasmesso il disagio di una realtà come la Cgil, stretta in spazi sempre meno agevoli, e dove rimane il filo rosso del lavoro come bussola di rappresentanza. Sul versante della ricerca sociale e dell’università, in cui ancora sono attivi diversi fra coloro arrivati a Rimini, gli interrogativi investivano il cambio di fase del modello di convivenza sociale, in cui ambiente, pace e tecnologie, ci parlano di una trasformazione epocale.
Ma al di là delle posizioni emerse, e delle testimonianze proposte, è importante valorizzare il metodo della discussione: una visione che valorizza lo sforzo di analisi e critica dei processi, ripristinando un rigore che oggi non si ritrova nelle agorà a sinistra. Luciana Castellina, nella sua introduzione, si diceva soddisfatta di come ci si confrontava, a prescindere dalla collocazione politica, dal partito in cui ci si trova, quando ci si trovi in un partito. Le categorie che i passaggi più rilevanti della riflessione di Magri avevano selezionato – tendenza delle forze produttive, compatibilità del sistema, chi paga la svolta, ruolo del riformismo – riacquistano una propria vitalità se connesse a un quadro di figure sociali e rapporti di produzione del tutto diverso dal decennio della centralità operaia.
A partire da un dato, che modifica lo scenario, dando alla sinistra responsabilità ma anche opportunità nuove: la platea che abbiamo oggi dinanzi. Una parte prevalente di quegli otto miliardi che popolano il pianeta oggi pretende e cerca occasioni di rilevanza, di protagonismo, di presenza sulla scena. Un numero che muta la tradizionale dinamica occidentalista che vedeva un ambito ristretto – non più di seicento milioni di persone – a cui riferire le possibili regole economiche. Sta in questa pressione la base materiale di quel “capitalismo della sorveglianza” che ha confiscato le speranze di chi – attraverso i suoi algoritmi – trova l’unica via per manifestarsi sul palcoscenico della storia. L’intelligenza artificiale come prodigio non deve stupirci né deviarci, ma quella domanda di accesso istantaneo e paritario a risorse di sapere, che viene dal mondo, perfino dalle sue aree più marginali e depresse, deve essere il terreno su cui sfidare il capitalismo in nome di un’eguaglianza che coincida con la libertà.
Pace e democrazia, i due capisaldi della cultura progressista, oggi, devono dilatare i propri confini fino a realtà che irrompono nella storia anche a costo del proprio annientamento, come spiegava nel suo saggio sul totalitarismo Hannah Arendt, analizzando l’egemonia della destra sui ceti proletari.
In questa prospettiva, appare stridente l’indugiare sulle psicologie dei gruppi dirigenti per recriminare sul destino avverso, riducendo la storia recente della sinistra a errori o limiti di singole personalità. Mentre proprio in questa congiuntura sarebbe utile ritrovare l’ambizione contenuta nelle “Tesi per il comunismo” (pubblicate sulla rivista “il manifesto”), con cui il gruppo dei dirigenti radiati dal Pci divenne movimento politico, di misurarsi con gli snodi dei processi globali, per connetterli alla concreta realtà del Paese.
Un percorso certo non compiuto a Rimini, e nemmeno iniziato, ma sicuramente evocato e invocato. Sarebbe stato patetico, o forse ridicolo, pensare che da quel bonsai di esperienze politiche, legate da reciproca stima e affetto, maturate in quelle circostanze indimenticabili del Sessantotto, si potesse sprigionare la scintilla che avrebbe incendiato la prateria. Ma, in questa cultura dei dati e della statistica in cui viviamo, dove solo quanto è misurabile è certo, se un segnale vogliamo cogliere ci viene proprio dall’ansia di continuare questa discussione, e dalla richiesta di trovare sedi stabili per darci reciprocamente il tormento di domande e ricerche su quanto accade, avendo realisticamente sullo sfondo la pretesa di ricomporre il puzzle di un “altro comunismo”.