La prima reazione è stata: “È un attacco alla libertà d’informazione”. La segretaria generale della Federazione nazionale della stampa italiana, Alessandra Costante, ha difeso i tre giornalisti del “Domani” finiti indagati: “A pubblicare le notizie i giornalisti non commettono mai un reato. Se le notizie sono frutto di reato non tocca ai giornalisti accertarlo”. È nota la serietà dei magistrati che indagano. Raffaele Cantone, procuratore di Perugia, una vita all’antimafia napoletana e poi all’Autorità nazionale anticorruzione. E Gianni Melillo, oggi procuratore nazionale antimafia, ieri capo di gabinetto del ministro di Giustizia Andrea Orlando, e una vita, anche lui, a combattere la camorra e il terrorismo. Persone serie. E dunque perché mai si sarebbero prestati ad affondare il colpo alla libertà d’informazione?
Non crediamo al complotto e alla malafede dei due magistrati. Anzi, il fatto che abbiano chiesto di essere sentiti “con l’urgenza del caso” dai vertici dell’Antimafia, del Csm e del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica, “per le valutazioni riservate”, ci lasciano ancora più inquieti, perché dell’inchiesta sul “monitoraggio abusivo degli archivi informatici riservati e per rivelazione del segreto”, sappiamo ancora ben poco. Lasciamo lavorare serenamente i magistrati e vediamo a quali conclusioni arriveranno.
Dell’inchiesta sappiamo che sono coinvolti tre giornalisti del quotidiano “Domani” (ma l’elenco dei giornalisti potrebbe essere più lungo) – Giovanni Tizian, Nello Trocchia, Stefano Vergine –, un tenente della Finanza, Pasquale Striano, e Antonio Laudati, responsabile del servizio “Segnalazioni operazioni sospette” della procura nazionale antimafia. Dal 2019 al 2023, in quattro anni, sarebbero stati documentati ottocento accessi non autorizzati alle diverse banche dati investigative. Non ci troveremmo di fronte alla produzione di veri e propri dossier, schedature che ricordano i tempi dello scandalo Sifar, agli inizi anni Sessanta del secolo scorso, in cui – di centinaia di migliaia di oppositori politici, sindacalisti, intellettuali – i vertici di apparati più o meno deviati conoscevano anche i gusti sessuali. Se non forse, finora, in un caso: il cosiddetto dossier “Gravina”, dal nome del presidente della Federazione gioco calcio italiano. Un episodio molto grave vedrebbe coinvolto il sostituto procuratore nazionale antimafia, Antonio Laudati. Che avrebbe mentito affermando che l’input per queste interrogazioni delle banche dati sarebbe venuto dalla procura di Salerno. In realtà, è stato un ex collaboratore di Gravina, Emanuele Floridi, a raccontare alcuni episodi che ora la procura di Roma sta cercando di verificare. Insomma, il dossier Gravina contiene fatti da approfondire (non bufale), ma è stato costruito con modalità illecite.
Una parte dei contenuti di questi accessi abusivi – è l’ipotesi che oggi sembra avvalorata dalle indagini – veniva dirottata verso i giornalisti. Ma non si può escludere che i beneficiari di queste informazioni carpite “abusivamente” siano anche altri.
Nel primo pomeriggio di domani 6 marzo, il procuratore nazionale Antimafia, Gianni Melillo, verrà sentito a palazzo San Macuto dalla presidente della commissione parlamentare antimafia, Chiara Colosimo. L’audizione del procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, invece, si terrà giovedì mattina, 7 marzo. A seguire, i due magistrati saranno sentiti dall’Ufficio di presidenza del Csm e dal Comitato per la sicurezza della repubblica, il Copasir. Audizioni “irrituali”, nel pieno di una indagine penale. E dunque per nulla tranquillizzanti. L’inchiesta è seria – sarebbero una quindicina gli indagati – e nello stesso tempo il quadro che emerge è grave, al punto tale che i magistrati inquirenti hanno avvertito l’esigenza di spiegare ai vertici istituzionali quello che sta accadendo.
Da un punto di vista processuale, laddove fossero confermate le modalità dell’acquisizione di dati sensibili non divulgabili, i giornalisti, ricevendo dal tenente della Finanza Striano il materiale prelevato nei server della procura nazionale antimafia avrebbero commesso – a quanto pare – il reato di cui al 615ter (accesso abusivo al sistema informatico) nell’ipotesi aggravata.
Il tema non è se un giornalista debba pubblicare la notizia purché vera, anche se pubblicandola si viola il segreto, investigativo o istruttorio. Pur condividendo il principio che un giornalista deve pubblicare la notizia, anche se la stessa proviene dalla violazione del segreto istruttorio o investigativo, il giornalista avrebbe ottenuto e pubblicato in questo caso notizie personali riservate oggetto di informazioni riservate e non oggetto di investigazione. È come se da un computer di un medico venissero estratte notizie su un paziente, poi girate al giornalista.
I giornalisti del “Domani” hanno ricevuto notizie su vicende che non sono oggetto di procedimenti pendenti e, soprattutto, sono state estratte in violazione delle norme sulla privacy. Colpisce che le banche dati siano state interrogate su personalità che avrebbero avuto incarichi ministeriali. Insomma, una volta che circolava un nome per la carica di ministro, i giornalisti ricevevano informazioni dalle banche dati interrogate dal tenente Striano.