ReCommon e Greenpeace Italia, e dodici privati cittadini e cittadine, hanno lanciato un’azione legale che porta a processo l’Eni per le sue responsabilità nell’accrescimento della crisi climatica. Ne parliamo con Antonio Tricarico, ingegnere energetico, esperto di finanza, tra i fondatori dell’associazione ReCommon.
Il 16 febbraio c’è stata la prima udienza della Giusta Causa, nella quale si chiede che l’Eni limiti le sue emissioni del 45%, come previsto dall’accordo di Parigi sul clima. Quali sono le motivazioni che vi hanno spinto a intraprendere la causa?
Riteniamo che l’Eni abbia contribuito al riscaldamento globale in una prospettiva storica, fin dalla sua fondazione nel 1953, e perciò abbia un alto grado di responsabilità per quanto riguarda il cambiamento climatico. Abbiamo portato al giudice le evidenze che l’azienda è responsabile di quasi lo 0,6% del totale complessivo globale di emissioni. È un numero rilevante. Eni, e le altre aziende legate al fossile, frustrano gli sforzi delle associazioni civili per preservare l’ambiente, oltre a creare problemi alle persone. Le dodici cittadine e cittadini italiani che partecipano alla causa abitano in zone molto colpite dai cambiamenti climatici, o convivono con la costante minaccia di danni ai loro parenti, ai loro territori, alla loro salute. Come ReCommon e Greenpeace, invece, partecipiamo perché riteniamo che vengano lesi i nostri fini statutari, legati alla protezione dell’ambiente. Consideriamo, inoltre, che da parte dell’Eni ci sia un profilo di dolo. Abbiamo pubblicato un lungo lavoro di ricerca in diversi archivi, compresi quelli di Eni, da cui si evince che l’azienda era a conoscenza dei danni collaterali alle proprie iniziative. Tecneco, azienda di ricerca che faceva parte dell’Eni, aveva prodotto la prima relazione ambientale per l’Italia già nel 1978, nella quale si menzionava che le emissioni avrebbero contribuito a un determinato aumento della temperatura, con conseguenze climatiche disastrose, come già era emerso dalle ricerche negli Stati Uniti.
Eni promuove le sue politiche green, come Plenitude o altre iniziative per biocombustibili ed energie rinnovabili. Come considerate queste strategie all’interno degli studi che avete condotto sull’azienda?
Contestiamo davanti al giudice che la strategia di decarbonizzazione dell’Eni, per diventare neutrale al 2050, non sia in linea con l’accordo di Parigi, e non consentirà di ridurre le emissioni a sufficienza, affinché la temperatura rimanga nei gradi stabiliti. L’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, che è la maggiore autorità nel campo, ha fornito analisi e raccomandazioni, dicendo chiaramente che l’esplorazione di nuovi giacimenti di gas e petrolio ci porterebbe oltre il grado e mezzo. Eni continua a investire ogni giorno in gas e risorse fossili. Vorremmo che l’azienda fosse condannata a rivedere la sua strategia di decarbonizzazione, che smettesse di fare missioni esplorative.
Quali sono le basi normative a cui fa riferimento la causa?
La Giusta Causa è una climate ligation, una causa climatica in sede civile,che segue, nella sua architettura giuridica, altri casi intentati per motivi legati all’ambiente in tutto il mondo. Noi ci appelliamo all’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), che si intreccia con due articoli molto importanti della Costituzione italiana: l’articolo 9 e l’articolo 41, rivisti nel 2022. All’articolo 9 è stata aggiunta una parte dedicata ai diritti per le generazioni future, mentre l’articolo 41 ha emendato il principio di bilanciamento tra diritto all’impresa privata e interesse pubblico, inserendo esplicitamente la questione ambientale all’interno dell’interesse pubblico. Quindi ci rifacciamo a queste normative sia italiane sia internazionali, tenendo a mente l’accordo di Parigi, cioè l’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale entro un grado e mezzo per evitare impatti climatici devastanti. Essendo una causa civile, inoltre, ci appelliamo all’articolo 2043, relativo alla responsabilità extracontrattuale. E agli articoli 2050 e 2051 del Codice civile, sulla gestione delle attività pericolose e le responsabilità per i beni in custodia.
Ci sono state delle cause simili che possono essere validi precedenti o casi studio rilevanti di climate ligation?
Ci sono stati più di duemila casi negli ultimi dieci-quindici anni, e aumenteranno di fronte al manifestarsi dei cambiamenti climatici sempre più palesi, all’inerzia dei governi e alla resistenza delle società petrolifere a cambiare rotta. C’è stato un caso rilevante nel giugno 2021 in Olanda, in cui la Shell è stata condannata in primo grado in sede civile, a ridurre le proprie emissioni del 45% nel 2030, rispetto ai dati del 2019. Questo precedente è molto importante per la nostra causa, perché è la prima sentenza che riconosce che gli accordi di Parigi si debbano applicare anche alle singole società private e non solo agli Stati. Inoltre, conferma l’impianto giuridico che si basa sui diritti umani. È molto rilevante che le cause climatiche che hanno avuto successo si basino su quella legge. Per noi è stata d’ispirazione, nonostante la Shell abbia fatto appello. Un altro caso, ancora in Olanda, è quello chiamato Urgenda, che invece è un’azione climatica contro il governo olandese per dimostrare l’inadeguatezza del piano energetico del Paese. Anche qui è stato fondamentale l’impianto giuridico basato sui diritti umani. Speriamo che finalmente anche in Italia si inizi a creare una giurisprudenza positiva a riguardo. Si aprirebbe uno scenario interessante, perché si porrebbe una nuova gamma di rischi per quelle società fossili che ancora fanno resistenza al cambiamento.
Ci sono state polemiche sui due consulenti chiamati dall’Eni a fornire rapporti tecnici sul loro operato. Perché? Chi sono e che cosa rappresentano?
Nello scambio di memorie che ha preceduto l’inizio della causa, l’Eni ha prodotto quattro relazioni tecniche, soprattutto sul calcolo delle emissioni, per dimostrare il rispetto degli accordi di Parigi. I rapporti sono stati redatti da due esperti, Carlo Stagnaro e Stefano Consonni. Carlo Stagnaro è stato, in maniera molto rumorosa, un negazionista climatico fino a qualche tempo fa. È dell’Istituto Bruno Leoni, che fa parte di una rete di think tank internazionali negazionisti climatici, che hanno volutamente intrapreso strategie di comunicazione e – potremmo dire – di depistaggio rispetto alla questione ambientale, soprattutto in Nord America. Come ha documentato in un’inchiesta “Il Fatto quotidiano”, l’Istituto Bruno Leoni ha anche ricevuto dei contributi da parte dell’Eni per alcune consulenze. Stagnaro, attualmente, ha cambiato alcune delle sue argomentazioni, mitigandole rispetto al passato; ma comunque rimane a favore delle società petrolifere e non rinnega il suo passato.
Il secondo consulente è Stefano Consonni, ricercatore del Politecnico di Milano, che nel tempo ha regolarmente svolto consulenza per società energetiche fossili, ma è anche stato condannato dalla Corte dei Conti per avere fatto una consulenza senza prima aver interpellato l’università per cui lavora. Ha ricevuto 2500 euro, che ora è stato condannato a restituire. È attualmente in corso un appello, ma di certo si può mettere in dubbio la credibilità di un professionista che ha ricevuto una condanna. Qualcuno potrebbe parlare di indipendenza di questi consulenti rispetto all’azienda imputata; ma il punto fondamentale è la credibilità: non risultano esperti adatti a questo tipo di interventi. Abbiamo reso pubblica questa scelta dell’Eni e l’abbiamo contestata, vedremo cosa dirà il giudice in merito.
Quanto è presente l’Eni nella politica italiana?
Troppo spesso i governi si affidano alla sua diplomazia. Il che è altamente preoccupante. Un’azienda non dovrebbe essere così partecipe della politica estera e delle strategie di sicurezza di un Paese. Inoltre, non è una semplice società energetica. In Italia rappresenta un potere di blocco enorme, dentro il quale confluiscono alcuni apparati dello Stato. Già in passato, come abbiamo evidenziato con ReCommon nel Caso Congo, l’Eni non si è dimostrata trasparente né controllabile, e soprattutto non è incline a favorire una vera transizione energetica in Italia. Vuole che il gas rimanga al centro del cambiamento, e quindi finisce per non avere nulla di trasformativo fuori dall’economia dei combustibili fossili. Nonostante tutto quello che asserisce nelle sue strategie, non vuole trasformarsi, così come le altre oil majors. Resistono perché sanno bene che – se si uscisse da questo tipo di economia – ormai sono troppo in ritardo per trasformare il loro business e perderebbero il loro potere. La loro è quindi una lotta per l’esistenza.
Cosa pensa del Piano Mattei?
Il Piano Mattei non esiste ancora, sapremo nei prossimi mesi in cosa consiste, probabilmente andrà anche al vaglio del parlamento. Nasce con l’idea di uno pseudo-scambio: voi aiutate l’Eni per la produzione di gas ed evitate l’immigrazione clandestina, mentre noi investiamo dei soldi nei vostri Paesi. Un accordo che non mi sembra conveniente per il continente africano. Sarà una serie di progetti, finanziati con il fondo per il clima, che potrebbe beneficiare anche l’Eni. Al vertice Italia-Africa, Meloni ha menzionato tre grandi progetti energetici, tra cui uno che coinvolge l’Eni, in Kenya, su cui probabilmente si investirà. Si tratta di biocombustibile e geocombustibile prodotti dall’azienda. Anche nel caso del Mozambico si vuole sviluppare l’estrazione di gas. Di sicuro gli interessi italiani energetici sono centrali nell’accordo. Tuttavia, per ora, non essendoci un piano concreto, è difficile giudicare.
ReCommon svolge da anni campagne di sensibilizzazione sull’intreccio tra sistema finanziario ed energie fossili per la giustizia climatica. Come nasce l’associazione e quali obiettivi ha?
ReCommon nasce nel 2012, siamo un’Aps, cioè un’associazione del Terzo settore. Il nostro quadro concettuale è quello di opporsi a una società estrattivista, in cui i combustibili fossili siano dominanti, e ci poniamo contro le aziende in contrasto con una trasformazione concreta. Sia a livello locale sia a livello internazionale, abbiamo bisogno di una transizione verso un futuro diverso. Con ReCommon, portiamo avanti campagne pubbliche, ricerche e inchieste.Oggi siamo focalizzati su Eni e Snam. Snam gestisce i gasdotti in Italia ed è il più grande gestore di trasmissione di gas a livello europeo. Facciamo campagne e ricerche anche sul sistema finanziario, come su Banca Intesa e su Sace, che fornisce servizi assicurativi e finanziari per le imprese, affinché smettano di finanziare le aziende fossili e valutino l’impatto di rigassificatori e di grandi progetti infrastrutturali in tutto il mondo. Noi di ReCommon agiamo in solidarietà con le comunità impattate dall’inquinamento e dai cambiamenti climatici, sia nel Sud globale sia in Italia e in Europa.