A volte i numeri dicono di più di tante chiacchiere. Il 2022 è stato un anno eccezionale per il settore delle costruzioni, che ha rappresentato con il suo indotto circa il 14% del Pil. L’Italia è stata il secondo Paese europeo come incidenza del settore sul Pil. La conferma arriva dal XXXIII “Rapporto congiunturale e previsionale” del Cresme (Centro ricerche economiche e sociologiche nel mercato dell’edilizia): si parla di tassi di crescita da anni Sessanta, sia per le ristrutturazioni sia per le nuove costruzioni residenziali. Ancora il Cresme ricorda che, negli ultimi anni, il mercato delle costruzioni è stato alimentato da importanti risorse private, quale il risparmio accumulato dalle famiglie e dalle imprese nel 2020 e nel 2021, integrate da consistenti risorse pubbliche e dagli incentivi fiscali legati al Superbonus e al Bonus facciate, per giungere fino agli ingenti fondi del Pnrr. Nel 2023 il dato, sia pure in flessione, è rimasto alto, e si prevede un rallentamento solo per il 2024.
Ma qual è il senso di questa frenetica attività costruttiva? Siamo diventati un popolo di castori? Il Paese non è a sufficienza cementificato? E che cosa si costruisce? È un’atavica fame di case ad alimentare questa febbre edilizia? Si costruiscono principalmente abitazioni di lusso per benestanti, supermercati e infrastrutture, mentre scuole, ospedali e case popolari vanno a pezzi. Almeno questo è quel che si evince dai dati ufficiali, anche se ferve poi un’attività oscura di abusivismo e di autocostruzione, che continua a rappresentare oltre il 15% del costruito totale, a testimonianza di una domanda abitativa interna pressoché completamente inevasa.
Non siamo più ai livelli di intensa attività edilizia irregolare degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, quando le abitazioni abusive realizzate arrivavano alla percentuale di quasi un terzo del totale, ma il dato continua a essere abbastanza impressionante. Costruzioni poi in parte sanate da cicliche sanatorie e condoni edilizi, di cui si comincia a prospettare l’ennesima edizione. L’abusivismo ha in Roma il suo apogeo, con la presenza di centinaia di migliaia di abitazioni irregolarmente costruite, che ne fa la più grande capitale abusiva di Europa.
La presenza di queste “irregolarità di massa” incide non poco sul continuo rinvio della riforma del catasto, di cui abbiamo già parlato su “terzogiornale” (vedi qui). Se l’abusivismo esprime sostanzialmente un bisogno di casa non soddisfatto – pur non mancando le deviazioni “antropologiche”, cui appartengono le seconde case sui litorali e le “case per i figli” non finite che costellano le campagne meridionali –, e rappresentano inoltre la posta in gioco di una partita politica complessa su cui bisognerebbe riflettere meglio, occorre però fare qualche considerazione sul senso di questo continuo costruire, legale o illegale che sia.
Una vecchia retorica insiste sul fatto che l’edilizia sarebbe il volano dell’economia. Questo forse poteva valere per il ciclo edilizio postbellico – anche se già all’epoca non mancarono le critiche – e in effetti i classici, da Schumpeter e Keynes in avanti, hanno sempre sottolineato la problematicità degli investimenti in costruzioni; ma nelle condizioni dell’economia contemporanea è completamente falso affermare che la crescita ipertrofica del settore sia indice di salute. Nelle economie avanzate, finanziariamente sofisticate, l’immobiliare rischia di sottrarre risorse agli investimenti produttivi, e produce bolle che si riflettono sull’intero sistema economico. Inoltre, la finanziarizzazione del settore immobiliare ha provocato una spirale in cui si insegue continuamente la valorizzazione di intere parti di città da “riqualificare”, alimentando la rendita e provocando brusche fluttuazioni e squilibri, com’è avvenuto con la bolla del 2008. Con conseguenze sociali pesantissime, come sta cominciando a sperimentare Milano. Per non parlare, poi, della questione ambientale, direttamente connessa ai materiali usati dall’industria delle costruzioni e al consumo di suolo che inevitabilmente la sua attività implica.
In Italia, dunque, in controtendenza rispetto all’Europa, settore costruzioni e immobiliare costituiscono una parte importante del Pil, circa un quarto, ma questo fenomeno non è certo da vedersi come un trionfo, o come l’affermazione di una specificità positiva del sistema Paese, dato che è legato al declino della grande industria e al mancato decollo dei settori più moderni. In realtà, sono in prevalenza i Paesi arretrati a presentare questa ipertrofia dei settori delle costruzioni e dell’immobiliare. Il dilagare del mattone degli ultimi anni assume, in questa prospettiva, la fisionomia di una sorta di autocannibalismo italico, di un tentativo estremo di estrarre valore a tutti i costi, sacrificando magari – come si è tragicamente visto in questi giorni – la sicurezza di chi ci lavora sull’altare della massimizzazione dei profitti, con una dinamica di subappalti a catena che ha ben ricostruito Paolo Andruccioli con la sua intervista ad Alessandro Genovesi (vedi qui). Ma questo è il segno di un’economia pericolante: un sistema economico legato al mattone è esposto all’andamento sempre alterno del ciclo delle costruzioni, e quanto avviene va inquadrato in un contesto segnato da un’economia nazionale resa di una debolezza drammatica dal rarefarsi dei settori di punta e dalla ridotta produttività dei settori tradizionali. Mentre si continuano a costruire torri e residenze di pregio, il fantasma di una questione abitativa insoluta continua ad aleggiare ovunque nel Paese e gli studenti si accampano nelle tende… Al tempo stesso, a chi, anche a sinistra, esalta acriticamente la crescita del settore, andrebbe ricordato che le case non si possono esportare.