Negli ultimi giorni, gli sviluppi della situazione a Gaza hanno avuto una risonanza sempre maggiore, anche per l’intervento del cantante Ghali, che, dal palcoscenico di Sanremo, ha esclamato “stop al genocidio!”, suscitando le irate proteste dell’ambasciatore israeliano, che ha immediatamente definito questa invocazione “un incitamento all’odio”, nonché la preoccupata presa di distanza dei vertici Rai. Qui vorremmo occuparci di un episodio che avrà indubbiamente un’eco minore, dati i non grandi numeri degli ascoltatori della radio, e della radio pubblica in particolare, ma che pare comunque indicativo del modo in cui l’informazione “benpensante” tratta la questione di Gaza, e in generale il conflitto arabo-palestinese.
Ci riferiamo all’intervento della giornalista italo-israeliana, Fiamma Nirenstein, alla trasmissione “Zapping” (Rai Radio uno) di lunedì 12 febbraio. Nirenstein è corrispondente da Israele per “Il Giornale”, ed è palesemente dalla parte di Netanyahu, come dimostrano i suoi interventi nella stessa trasmissione, di cui è ospite frequente: tempo fa, intervistata dal conduttore, Giancarlo Loquenzi, sul progetto di riforma della Corte suprema presentato da Netanyahu, ne ha preso abbastanza nettamente le difese, rimproverandogli semplicemente qualche errore tattico nel portarlo avanti. Posizioni del tutto legittime, naturalmente: ma è opportuno precisarle per valutare quale possa essere il suo grado di obiettività.
Nirenstein mancava da “Zapping” da qualche settimana. L’occasione per invitarla nuovamente è stata l’uscita di un suo libro sull’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre e sugli sviluppi successivi della situazione. Loquenzi è un giornalista abile e informato, che in generale cerca di mettere in difficoltà i suoi ospiti quando non è d’accordo con loro, mentre, quando condivide le loro posizioni, adotta la tattica “dell’avvocato del diavolo”, cioè presenta all’interlocutore le posizioni contrarie, dandogli così modo, in realtà, di ribadire le proprie con ancora maggiore dettaglio. In questo caso, invece, si è trattato di una intervista “ventre a terra”, cioè a Nirenstein è stata data la possibilità di esporre le proprie tesi senza alcun contraddittorio, nemmeno simulato.
Nirenstein è partita equiparando senz’altro le atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre all’Olocausto; le obiezioni fatte da molti, tra cui ultimamente una funzionaria dell’Onu attiva a Gaza, Francesca Albanese, che i due eventi, per quanto entrambi spaventosi, non siano comparabili, non è stata neppure sollevata. Poi ha proseguito lamentando il fatto che, dopo un iniziale moto di sdegno, in Italia si siano svolte perlopiù proteste “in nome dell’antisemitismo”: a queste parole, un ebreo vittima dei campi di sterminio nazisti che per miracolo fosse risuscitato in quel momento, avrebbe pensato a cortei simili a quelli che si svolgevano in Germania nei primi anni Trenta, scanditi da slogan di odio per gli ebrei. Ma salvo qualche caso marginale, in nessuno dei cortei anti-Israele sono stati pronunciati slogan del genere: la protesta era contro la rappresaglia israeliana a Gaza, per le vittime che ha provocato e continua a provocare tra la popolazione civile. Ci si sarebbe aspettato, a questo punto, che Loquenzi, dato il suo abituale modo di condurre le interviste, avesse fatto questa obiezione a Nirenstein, per darle così la possibilità di ribadire la nota equazione che chi è contro Israele è automaticamente antisemita, ma non è accaduto neppure questo: secondo Nirenstein, coloro che si sono permessi, ora e in passato, di criticare la politica israeliana nei confronti dei palestinesi odiano gli ebrei e lo proclamano in tutte le occasioni. Tony Judt, uno storico inglese di origine ebraica che aveva trascorso, negli anni Sessanta, un certo periodo in Israele, e che aveva anche perso un parente nei campi di sterminio nazisti, parlava di “uso strumentale dell’Olocausto”; mai come in questa occasione le sue parole sembrano appropriate.
Una timida obiezione è stata però sollevata da Loquenzi a proposito dei contrasti che sembrano essere sorti, ultimamente, tra Biden e Netanyahu in merito a Gaza, e in particolare al preannunciato attacco israeliano a Rafah, l’ultima città della striscia, al confine con l’Egitto. Nirenstein risponde che questi contrasti sono solo apparenti. In questo caso, siamo d’accordo con lei: come sottolinea più volte Ilan Pappé nel suo La più grande prigione del mondo. Storia dei territori occupati (Fazi), dalla fine della guerra dei sei giorni (cioè dal 1967) in poi, gli Stati Uniti non hanno mai contrastato di fatto la politica di Israele, limitandosi, e solo in alcuni casi, a qualche nota di disapprovazione. Ma torniamo all’intervista. Loquenzi le ha fatto notare come Biden si sia rivelato molto preoccupato della sorte dei civili a Gaza; la sua ospite ha risposto che anche Israele lo è: per esempio, li avverte sempre, distribuendo volantini, dei luoghi in cui attaccherà e li invita a rifugiarsi altrove. Evidentemente, in un territorio come la striscia di Gaza, che ha una superficie di 365 kmq (un centinaio in meno del principato di Andorra) e in cui vivono circa due milioni e centomila abitanti, tutti o quasi tutti hanno una seconda casa in cui mettersi al sicuro.
In ogni caso, si è premurata di precisare Nirenstein, le sofferenze che in questo momento sta patendo la popolazione civile di Gaza sono conseguenza del criminale attacco del 7 ottobre. Ilan Pappé, nel libro citato (pp. 340-42), la cui edizione originale risale al 2017, parla invece di una “politica di genocidio” di Israele nei confronti degli abitanti di Gaza. Pappé è uno storico israeliano; ma Nirenstein bollerebbe anche lui (se non l’ha già fatto) come antisemita, mosso da odio nei confronti degli ebrei. Come ricorda un altro studioso ebreo, il re Acab “condannò il profeta Elia in quanto ‘odiatore di Israele’ (…) perché aveva osato smascherare e criticare i misfatti del re” (N. Chomsky, Lotta o declino. Perché dobbiamo ribellarci contro i padroni dell’umanità, Ponte alle grazie, p. 26). Ma anche Chomsky è stato additato come esempio di “ebreo che odia se stesso”: l’equazione “critico di Israele” è evidentemente infalsificabile (direbbe Popper), e come tale dogmatica.