Tra ballerini, celebri performer e il volto simpatico ai più di Virginia Raffaele spiccava, immancabilmente circondato dal neon, il logo dell’Eni. Ogni stacco pubblicitario, durante il Festival di Sanremo, ha visto come protagonista il cane a sei zampe, spesso in verde, accompagnato da slogan vuoti come “da energie diverse, un’energia unica”. Né l’azienda né il festival hanno reso nota l’entità della sponsorizzazione, ma gli spot ogni mezz’ora, e il green carpet creato per collegare le sedi dell’evento, lasciano intendere un impegno economico consistente.
Il Festival di Sanremo – terminato sabato 10 febbraio, con il 70.8% di share e 17 milioni 281 mila spettatori – è stato un ottimo palcoscenico su cui rilanciare l’immagine dell’azienda, il tutto sotto altre spoglie, come quelle di Plenitude. Si tratta di una “società benefit”, definita dalla legge 208/2015 come una società che, nell’esercizio di un’attività economica, persegue una o più finalità di beneficio comune e opera in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità e territori. In realtà, Plenitude rappresenta un piccolo investimento “verde” per l’Eni. Offre forniture di energia elettrica e gas naturale, avendo un ricavo che non si avvicina lontanamente a quelli dell’azienda madre. Nel 2022, infatti, ha prodotto utili operativi per 497 milioni di euro, ben poco se confrontato con le entrate di Eni, pari a un netto di 10,8 miliardi di euro. L’attività redditizia dell’azienda rimane quella legata all’estrazione, la raffinazione e la vendita di combustibili fossili.
Mentre il logo dell’Eni entrava scintillante nelle case degli italiani, Greenpeace ha organizzato a Pisa un evento per denunciare il greenwashing dell’azienda petrolifera a Sanremo. Gli attivisti hanno messo in scena il Festival della nota stonata, evidenziando l’abisso che intercorre tra gli spot green dell’azienda e le azioni concrete. Non solo l’Eni rimane il principale produttore di Co2 in Italia, ma è tra le trenta aziende petrolifere responsabili di circa metà delle emissioni globali.
Greenpeace e Re:common hanno più volte chiesto all’azienda di dismettere alcuni impianti inquinanti e di abbandonare gradualmente le fonti fossili, per perseguire gli obiettivi decretati all’Accordo di Parigi. Pochi mesi fa le due associazioni, insieme con dodici privati cittadini, hanno fatto causa all’Eni per avere minimizzato i rischi ambientali e indebolito le politiche internazionali sul clima fin dagli anni Ottanta. La prima udienza si terrà presso il tribunale di Roma, il 16 febbraio, a soli cinque giorni dalla fine del Festival nella cittadina ligure.
Se, tra una canzone e l’altra, la compagnia energetica di bandiera si è potuta vestire di verde, è con gli accordi internazionali che persegue i suoi veri interessi. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha aperto a fine gennaio la conferenza Italia-Africa in cui si è discusso il Piano Mattei, con il proverbio africano: “Se vuoi andare veloce corri da solo. Se vuoi andare lontano, vai insieme a qualcuno”. Sembra però che ad andare lontano sia solo il cane a sei zampe.
L’azienda, partecipata dallo Stato al 32%, nel 2021 era la seconda multinazionale per presenza nel continente africano; e il Piano Mattei, dal nome dell’acclamato ex presidente Eni, è un chiaro programma per la protezione delle mire energetiche italiane a sud del Mediterraneo. L’impegno per mantenere buoni rapporti con i Paesi ospitanti e per sostenere progetti “puliti” a livello ecologico costa parecchio. Solo nel 2022, l’Eni ha annunciato un nuovo fondo per la sostenibilità da tre miliardi, sostenuto da vari istituti bancari. Da decenni, la compagnia investe in iniziative propagandistiche, con progetti sociali e ambientali nei territori da cui attinge gas e petrolio. Un esempio è il Mozambico, dove l’azienda, presente dal 2006, ha promosso la didattica e sostegni all’agricoltura per milioni di euro, mentre estraeva, solo nel 2022, 6mila boe/g – un boe equivale a circa 17mila litri di gas naturale.
Ora, invece, saranno gli italiani a metterci i soldi. Presentandosi ai venticinque capi di Stato presenti come validi alleati del continente africano, con un atteggiamento autodefinito “non predatorio”, il governo Meloni ha proposto un affare: 5,5 miliardi di euro in cambio di libero approvvigionamento di materie prime, con il caldo incoraggiamento a disincentivare l’immigrazione. La presenza dei vertici europei a sostegno del progetto dimostra l’interesse nel fare del nostro Paese un polo di smistamento di risorse, che assicuri un rifornimento sicuro da sostituire al gas russo. Il tutto condito dalla retorica, cara alle destre, dell’“aiutiamoli a casa loro”. Non a caso, vengono coinvolti gli statisti in grado di favorire la canalizzazione energetica, mentre rimangono fuori le organizzazioni ambientaliste africane, i sindacati dei lavoratori e gli analisti che hanno pensato soluzioni alternative. I gruppi della società civile hanno infatti espresso preoccupazione per la mancanza di coinvolgimento delle comunità locali in merito agli investimenti.
Riunite nella campagna Don’t gas Africa, diverse associazioni hanno denunciato in un comunicato la mancanza di garanzie fornite dall’Italia per prevenire lo sfruttamento o il furto di risorse naturali, che riconoscono come una caratteristica strutturale delle relazioni passate. Dean Bhekumuzi Bhebhe, responsabile della campagna ha dichiarato: “Il Piano Mattei è il simbolo delle ambizioni italiane in materia di combustibili fossili, un piano pericoloso e miope che minaccia di trasformare l’Africa in un mero canale energetico per l’Europa. Questo progetto trascura l’urgente crisi climatica e le voci della società civile africana: i percorsi perseguiti per lo sviluppo del continente devono essere guidati in primo luogo dai bisogni e dalle voci del popolo africano, non dalle richieste energetiche esterne”.
L’Italia spera di ottenere un posto all’interno delle potenze vicine all’Africa e l’azienda energetica di bandiera dovrebbe svolgere un ruolo fondamentale in questo processo. Nonostante l’azionista di maggioranza sia lo Stato, l’Eni non è tuttavia da considerare un partner commerciale affidabile. Lo dimostra, per esempio, il caso Congo, in cui l’azienda ha patteggiato per induzione indebita, ed è stata sanzionata per undici milioni e 800mila euro. Nel 2020, infatti, la compagnia ha ceduto alcune quote di giacimenti petroliferi all’azienda Aogc, di proprietà del presidente della Repubblica congolese, Denis Sassou Nguesso, in cambio del rinnovo delle licenze estrattive, violando la legge 231 del 2001 sulla corruzione internazionale. I dubbi sulle attività illecite si sono replicati in un’altra occasione. In Nigeria, grande assente al summit romano, Eni e Shell sono state accusate di corruzione per l’acquisizione della licenza petrolifera Opl 245. Il processo è terminato con l’assoluzione per tutti gli imputati, ma rimangono sospette alcune operazioni finanziarie dirette nel Paese africano.
Non bastano quindi i fiori di Sanremo. Non possiamo mettere il futuro sostenibile del continente africano – e, di conseguenza, il nostro – nelle mani di un’azienda che si è dimostrata poco trasparente a livello commerciale e senza scrupoli nello sfruttamento delle risorse naturali.