A due mesi dal suo insediamento, i principali istituti demoscopici argentini registrano una perdita di consenso per il presidente Javier Milei, che oscilla tra il 7 e il 9%. Se prima l’ultra-libertario poteva vantare l’approvazione del 55% della popolazione, ora starebbe al 48%. Tenuto conto che il periodo della cosiddetta luna di miele non è ancora terminato, il processo di deterioramento pare non avere precedenti. Tra i sondaggisti, alcuni sono convinti che la percentuale di pentiti di avere votato il partito di Milei (La Libertad avanza) abbia già raggiunto il 10%. Altri pensano che tale processo possa difficilmente essere frenato. E altri ancora sostengono che l’unica possibilità per il presidente di risalire la china dipenda dalla sua capacità di abbassare l’inflazione, anche se gli riconoscono qualche chance dato che l’opposizione, in particolar modo il composito fronte peronista, è lungi dall’avere assorbito il colpo della sconfitta dello scorso 22 ottobre.
Se tutto ciò è vero, stando sempre ai sondaggi, colpisce la marginalizzazione nella vita politica del Paese subita da Propuesta republicana (Pro) e da Juntos por el cambio (JxC), lo schieramento della destra tradizionale rappresentata dall’ex presidente Mauricio Macri, al quale i sondaggi riconoscono solo il 10% del gradimento degli argentini. Come si ricorderà, al primo turno Macri aveva fatto correre l’attuale ministra dell’Interno, Patrizia Bullrich. Per chiudere, poi, un accordo con Milei al ballottaggio, l’outsider su cui aveva puntato lo stesso candidato moderato del peronismo, Sergio Massa, considerandolo più facile da battere per via del suo estremismo.
Se il Pro, alleato parlamentare di Milei, non gode di buona salute, nessun sostegno sembra venire dai radicali, l’altra formazione che potrebbe appoggiarlo, mentre sarebbe pari e patta tra La Libertad avanza e l’Unión por la patria (Up), entrambi al 30%. Il problema più grosso, comunque, resta quello dell’inflazione, di cui gli argentini incolpano ancora il precedente governo, mentre solo il 42% la attribuisce a Milei. Appare questa la chiave di volta del destino del governo di estrema destra che ha preso possesso della Casa Rosada – dopo la svalutazione e le prime misure shock, con un indice dei prezzi al consumo che, l’anno scorso, aveva chiuso al 211,4% su base annua, facendo dell’Argentina il secondo Paese al mondo con la maggiore inflazione dopo il Libano.
Secondo i dati di gennaio, l’inflazione dovrebbe segnare un rallentamento rispetto all’indice dei prezzi al consumo del 25,5% registrato in dicembre, rimanendo tuttavia ancora in una zona vicina al 20%, mentre il governo non ha a disposizione molti mesi per vedere confermata la propria credibilità in campo economico dinanzi a una crescita del disagio e della protesta sociale. Per potere consolidare la propria immagine, e salvare l’economia, Milei scommette sull’approvazione della cosiddetta legge omnibus, che in origine conteneva ben 664 articoli, e che, dopo un mese di defatiganti trattative, ha perso però quasi la metà del suo contenuto.
Finalmente, venerdì scorso, la Camera dei deputati ha approvato la legge con 144 voti a favore e 109 contro. Hanno votato per l’approvazione i deputati del Pro, dell’Unión civica radical e di Hacemos por nuestro País, potendo contare La Libertad avanza solo su quaranta voti. Il governo ha ottenuto questo risultato in cambio di una serie di concessioni significative, sebbene non sia stata messa la parola fine all’intera vicenda, poiché centinaia di articoli devono essere discussi e votati in modo indipendente. El loco, come viene chiamato Milei, ha dovuto rinunciare alla privatizzazione della compagnia petrolifera Ypf, e ha ridotto la portata e la durata dei poteri di emergenza che si era concesso non appena arrivato. Nonostante avesse fatto recentemente trapelare la sua intransigenza nei confronti dei ministri più aperti al dialogo – “Que se termine la novela!”, aveva esclamato in una riunione del Consiglio dei ministri alla Casa Rosada –, il testo originale della ley Ómnibus appare profondamente rimaneggiato. Il dibattito su ogni sezione del megaprogetto è iniziato ieri, con la maggioranza di governo, a cui Milei non aveva dato ulteriori margini per negoziare, che non aveva ancora i voti per approvare diversi articoli chiave, come le privatizzazioni e i poteri delegati; alla fine l’esecutivo ha deciso di interrompere bruscamente la discussione e di inviare il progetto di nuovo in commissione. Ora il processo parlamentare ripartirà da zero, dal momento che il governo non ha ricevuto l’appoggio del resto dei gruppi per approvare articoli che la Casa Rosada considera fondamentali.
“All’inizio abbiamo visto la mancanza di volontà della maggioranza di accompagnare le proposte di modifica proposte dal governo nazionale, e sono stati respinti i poteri delegati più importanti che permettevano di deregolamentare, riorganizzare lo Stato e così via. Poi, in questo modo, non aveva senso avanzare nel trattamento della legge, perché perdeva la sua essenza”, ha spiegato il ministro dell’Interno, Guillermo Francos. A questo proposito, il ministro ha ricordato che “il presidente Milei non rimarrà con le mani in mano” e gestirà “con gli elementi che la Costituzione permette, che può essere la consultazione popolare, i decreti di necessità e urgenza, tra gli altri”.
Le pretese originarie del partito di governo sono state fortemente ridimensionate dalla pressione dei blocchi dell’opposizione dialoghista e dei governatori. Quando era stata presentata la legge, il potere esecutivo aveva chiesto la dichiarazione di undici emergenze: economica, amministrativa, finanziaria, fiscale, sociale, previdenziale, di sicurezza, difesa, tariffaria, energetica e sanitaria. A sua volta, chiedeva che l’emergenza fosse votata e quindi Milei avesse mano libera per due anni, prorogabili per altri due. Dopo diversi negoziati e riscritture, sono state finalmente approvate sei emergenze: economica, finanziaria, di sicurezza, tariffaria, energetica e amministrativa. In altre parole, quelle in materia fiscale, sociale, previdenziale, sanitaria e di difesa sono state eliminate. Anche la durata veniva ridotta a un anno, prorogabile per un altro anno, previa l’approvazione del Congresso. La sconfitta di La Libertad avanza, ieri, 6 febbraio, è stata categorica, devastante. Lo sconcerto era totale e, nonostante alcuni libertari insistessero per il proseguimento del dibattito, il clima era di pesante sconfitta: tanto più che quasi nessuno crede che la questione sarà di nuovo toccata a breve. In molti giudicano l’operato del governo degno di dilettanti allo sbaraglio.
Mentre al Congresso accadeva tutto ciò, Milei ha iniziato un giro internazionale, partendo con un volo di linea alla volta di Israele, dove ha confermato l’intenzione di spostare l’ambasciata argentina a Gerusalemme. Con questo viaggio – che lo porterà poi anche in Vaticano da papa Francesco, definito in passato un “imbecille”, e a incontrare Sergio Mattarella e Giorgia Meloni –è il primo presidente dell’America latina a visitare Netanyahu, dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre. A differenza di Lula da Silva, Gustavo Petro e Andrés Manuel López Obrador, Milei esibisce con orgoglio una posizione di sostegno e solidarietà indiscussa al governo israeliano.
I suoi problemi però non vengono unicamente dal legislativo, perché solo qualche giorno fa, la Cámara nacional de apelaciones del trabajo ha giudicato incostituzionale la riforma del lavoro, introdotta con il famoso Decreto di necessità e urgenza (Dnu): e questo è l’ultimo colpo ai suoi piani per rivedere l’economia della nazione. Il provvedimento ha fatto seguito alla sospensione concessa dal tribunale, dopo un ricorso del sindacato Cgt, i cui leader, mercoledì 24 gennaio, avevano indetto uno sciopero nazionale contro le riforme di Milei, mobilitando milioni di lavoratori. Con quello sciopero generale, il presidente ha ricevuto il primo avvertimento dalle piazze, che avevano respinto il piano di tagli con marce nelle principali città. Solo a Buenos Aires, decine di migliaia di persone erano scese in strada, e si è calcolato che l’adesione allo sciopero sia stata di circa l’80% dei membri del sindacato, cioè di circa cinque milioni, a livello nazionale. Anche se la mobilitazione non è riuscita a paralizzare il Paese – in piena estate, ovvero in un periodo di vacanze –, i lavoratori argentini e una folla di oppositori hanno mandato un chiaro messaggio di ripudio del piano di smantellamento dello Stato e dei servizi pubblici perseguito dal presidente. La cosiddetta riforma del lavoro di Milei puntava alla semplificazione degli obblighi di indennità di licenziamento dei datori di lavoro e dei “periodi di prova”, prima che un’azienda dovesse assumere un lavoratore a tempo pieno.
Intanto, per l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico il crollo dell’economia in Argentina sarà peggiore del previsto. Mentre, per l’anno in corso, l’economia appare contrarsi del 2,3%, con un meno 1% in più di quanto stimato a novembre, a causa delle politiche di austerità varate dal nuovo governo, gli effetti delle riforme inizieranno a vedersi solo nel 2025, quando il Pil dovrebbe crescere del 2,6%.
Secondo l’Istituto nazionale di statistica e censimento (Indec), la povertà in Argentina è cresciuta al 40,1% nel primo semestre dell’anno scorso. L’aumento dell’importo della Carta alimentare, deciso dal governo – attualmente di quarantaquattromila pesos, meno di cinquanta euro al cambio ufficiale –, non è sufficiente ad assicurare il cibo giornaliero per un mese intero. Così, lunedì scorso, migliaia di persone beneficiarie delle mense comunitarie hanno protestato a Buenos Aires davanti al ministero del Capitale umano, che ha accorpato gli ex ministeri della Salute, dell’Educazione, del Lavoro e dello Sviluppo Sociale. Nel Paese funzionano quasi cinquantamila mense e posti di ristoro riconosciuti dallo Stato, ai quali accedono non solo le famiglie dei lavoratori informali, ma, a causa dell’inflazione devastante, anche le famiglie dei lavoratori con un impiego formale, perché, con quello che guadagnano, non arrivano a mangiare tutto il mese.
Quella delle ollas populares (“pentole popolari”), che si aggiungono alla Carta alimentare, è il secondo strumento di assistenza su cui si basa l’intervento statale a favore delle fasce di povertà. Il fulcro dell’azione statale è l’invio di cibo alle mense. Ma, nonostante la promessa di Milei che i tagli non avrebbero colpito i poveri, il governo ha sospeso la fornitura di cibo alle mense comunitarie, il cui impatto sociale è doppio rispetto a quello rappresentato dalla Carta alimentare. A protestare erano quindi convenute, lunedì scorso, più di diecimila persone, postesi in fila davanti al ministero del Capitale umano per chiedere al suo titolare, Sandra Pettovello, assistenza alimentare. Il governo nazionale non invia cibo alle mense delle comunità da quando Milei ha assunto la presidenza in dicembre. Sono due mesi in cui, a causa dell’aumento del prezzo del cibo e della perdita del potere di acquisto della classe media e dei settori popolari, la domanda nelle mense e nei ristoranti è in aumento. La manifestazione, che una parte della stampa ha battezzato las filas del hambre (“le file della fame”) ha accusato Sandra Pettovello di non aver disposto la consegna di cibo nelle mense di quartiere. Le richieste dei manifestanti sono state sostenute dai rappresentanti della comunità cattolica argentina, che hanno chiesto al governo di intensificare “senza indugio” l’assistenza alimentare per i cittadini a basso reddito.
In breve, la mancata consegna di cibo secco a mense e snack popolari, da parte del ministro Sandra Pettovello, si è trasformata in un boomerang politico per il governo, in un momento in cui Milei ha iniziato un viaggio che prevede la visita a un papa argentino molto vicino ai movimenti sociali che hanno organizzato la protesta e alle organizzazioni che si dedicano all’assistenza ai poveri. Bergoglio non ha mai più rimesso piede nella sua terra natale, da quando è stato eletto al soglio pontificio. Le esternazioni di Milei contro di lui, durante la campagna elettorale, di certo pesano, anche se il presidente ha cambiato registro, scrivendo a Francesco che non aveva bisogno di un invito per visitare la sua terra. Ma per la sua importanza politica, e per il peso che può avere nelle vicende interne dell’Argentina, l’eventuale visita di Bergoglio non sarà una passeggiata. Alla richiesta delle organizzazioni raggruppate nell’Unión de trabajadores y trabajadoras de la economía popular (Utep) e dei piqueteros di sinistra, si è aggiunta recentemente la forte richiesta della Conferenza episcopale argentina, che ha avvertito il governo che il cibo non può essere una variabile soggetta al taglio di risorse. I vescovi argentini hanno sottolineato la necessità che l’assistenza arrivi “senza indugio” alle mense popolari e alle organizzazioni della società civile. Si è fatto sentire anche il Consiglio direttivo della Cgt, in cui si definisce “insensibile e discriminatorio” il ministro, mentre già si comincia a parlare della possibilità di un nuovo sciopero generale.