Forse oggi Marx sarebbe stato meno liquidatorio sul mondo agricolo, che, con la sua proverbiale brusca insofferenza, bollava di “idiotismo rurale”. Erano le poche decine di migliaia di addetti ai nuovi opifici a vapore il soggetto a cui guardava per contrastare la mala bestia del capitalismo sfruttatore, non certo quelle plebi contadine in cui scorgeva una genetica ambizione di proprietà privata rispetto alla terra. Ma oggi la sua sensibilità e curiosità sociologica lo avrebbero portato a chiedersi come disgregare quella possente piattaforma di sovversivismo reazionario che in tutto il secolo scorso ha sempre sostenuto e alimentato le forze avverse al progresso e al movimento operaio.
Lo scenario che abbiamo sotto gli occhi propone un aggiornamento della tradizionale dinamica città/campagna, che ha tenuto in scacco la sinistra nel secolo scorso. L’irruzione dei trattori, con la loro scia di fieno e letame, negli asettici centri di calcolo che stanno dominando il nuovo secolo, parla di una nuova questione di classe che si propone nel tempo della smaterializzazione della produzione. Una questione che vede del tutto assenti, come forse mai nel lungo dopoguerra, il movimento del lavoro e le forze politiche ad esso collegate, sulla cui testa stanno contrapponendosi due visioni autoritarie di destra: quella tecnocratica ed elitaria, dominata dai ceti calcolanti, e quella populista e sovranista dei calcolati, che mira a contrapporsi al globalismo tecnologico.
È una partita che spacca l’Occidente, e ridisegna le mappe geopolitiche e geosociali. I conflitti degli ultimi vent’anni, che avevano visto consumarsi il richiamo dell’egemonismo americano, contestato a destra da una radicalizzazione di ceti medi e borghesie nazionali in tutto il pianeta, parlava di questo inedito attrito fra le due destre. L’esplosione del caso Trump, che al di là dell’aura di folklore che lo aveva accompagnato nelle sue prime uscite, si ripropone come una torsione istituzionale, che mette in discussione, da destra, gli assetti dell’impero americano, pone questo nodo: il patto sociale su cui il capitalismo atlantico aveva governato il mondo e sbaragliato l’avversario sovietico non è più sostenibile per la pancia dei capitalismi nazionali.
Quella strategia, come spiegò nel decennio scorso il premio Nobel per l’economia Richard Thaler, basata su forme diverse di cosiddetti nudge – le spinte più o meno gentili praticate dalle forze dominanti del mercato globale per portare aree sociali a consumare merci e messaggi, che sono oggi esattamente la stessa cosa – non appaiono più sostenibili. Proprio l’Italia fu un laboratorio di queste politiche di impasto capitalista: prima, negli anni Ottanta, con l’internazionalizzazione passiva promossa dalle tv di Berlusconi, che estendevano al nostro Paese la linea adottata negli Stati Uniti per uscire dalla crisi del Kippur, facendo consumare di più la parte di mondo che già consumava di più. Il linguaggio per quest’azione era quello dell’alluvionale pubblicità, congiunta con una spesa pubblica concentrata sulla borghesia compradora.
Poi, negli anni Novanta, si avverte la reazione vandeana delle aree sociali che reclamavano un ruolo maggiore rispetto ai modelli ritagliati sulla “Milano da bere”. La Lega si insedia proprio nelle aree delle province industriali, e qui sanciscono il nuovo patto dei produttori fra operai e padroncini, contro l’immigrazione che abbassa il costo del lavoro e la Cina che insidia i profitti. Già allora erano in campo i trattori con la mucca Ercolina e la battaglia per cancellare le quote latte e le sanzioni comminate dall’Unione europea agli allevatori, che avevano coscientemente violato tutti i limiti comunitari sugli indennizzi agricoli.
Dinanzi a una sinistra attonita, paralizzata dal conflitto d’interessi della sua base sociale emiliana e toscana, si delinea un meccanismo ingovernabile. L’Europa alza i dazi e sbarra la strada alle produzioni dei Paesi in via di sviluppo, quelli dell’Africa e dell’America latina. Così, inevitabilmente, centinaia di migliaia di ex contadini affamati da quelle lande desolate arrivano sulle nostre coste, materializzando i pericoli e le minacce che brandivano i neo-sovranisti, che si trovavano il vento in poppa proprio per le scellerate politiche di un’Europa riformatrice. Una miscela infiammabile, che incendia la prateria con l’addensarsi della catastrofe ambientale, e fa intendere che le rendite di posizione nelle produzioni intensive delle campagne non sono più tollerabili.
Anche in questo caso, lo scontro vede del tutto marginale la mediazione delle forze del lavoro, che assistono alla contrapposizione fra un ecologismo radicale, che ignora ogni problema legato alle relazioni sociali, e la resistenza della rendita più oscurantista che difende lo status quo. Un conflitto che spinge definitivamente nelle braccia degli “autocrati” – Le Pen, Trump, in Italia Salvini e Meloni – quella schiera di proprietari che non intendono pagare il prezzo che, alla fine del Novecento, hanno pagato gli operai con la decimazione delle imprese in Europa.
In questo scenario, irrompe il capitalismo della sorveglianza, descritto da Shoshana Zuboff. Una forma di economia teleguidata dagli algoritmi, dove, in alto, una ristretta schiera di aristocrazie tecnologiche programmano macchine che orientano i nostri comportamenti, decentrando l’accesso alle forme più potenti dei modelli computazionali per estendere le forme della propria egemonia di massa, e, in basso, una nuova classe di “professionisti della tastiera” (come li ha chiamati di recente su “Repubblica” Massimo Giannini), che si costituiscono come ente intermedio nella nuova catena di comando sociale, mediando il dominio degli imperi del calcolo sulla base di una privatizzazione di beni comuni come i dati e gli algoritmi.
Sono due umanità divise da un linguaggio, il software, e da una visione del mondo, l’automazione integrale, che si contrappongono in uno scontro al calor bianco in cui non si fanno prigionieri. Le stesse guerre reali, dall’Ucraina a Gaza, sono indotte da questa nuova dislocazione di forze. Putin e la Cina hanno capito come colpire l’egemonismo occidentale, eccitando, con la guerra ibrida che insidia il senso comune dei singoli Paesi, il rancore degli esclusi dalle élite tecnocratiche.
Mai come oggi sarebbe indispensabile, e anche teoricamente plausibile, una proposta che congiunga sostenibilità ambientale, con equità degli scambi commerciali, e controllo sociale delle potenze tecnologiche. Una proposta che attacchi direttamente l’inviolabilità di equilibri basati sulla proprietà esclusiva della terra e dell’intelligenza artificiale, lavorando su quel popolo dei saperi e della qualità della vita che sta cercando percorsi autonomi per sottrarsi al ricatto del mercato dei vincenti.
“Pace e democrazia” – vecchia parola d’ordine – potrebbe oggi essere tradotta in “controllo sociale per trattori e calcolatori”. Certo, ci vorrebbero un partito, e anche una disperazione, che ancora non ci sono. La conseguenza è che un tessuto di figure medio-basse, cresciuto nelle pieghe di uno sviluppo consumista, è oggi in campo ponendo, nella loro evidenza primaria, obiettivi che riguardano la materialità degli interessi di un ceto sociale ben identificabile nella sua dinamica con la politica. Una categoria, o potremmo dire una lobby, che dal dopoguerra ha potuto tessere relazioni e rapporti in quell’intreccio di prebende e privilegi che, fin dall’inizio della sua vicenda, ha portato l’Unione europea a finanziarie l’agricoltura più ricca del mondo con il 45% del bilancio comunitario.