Ci vorrebbe Gabriel García Márquez per raccontare la tragedia di Bogotà. In questi giorni, in queste ore: il sangue per le strade, la polizia che picchia e spara, l’esercito con licenza di uccidere, i rastrellamenti nei quartieri popolari, l’intero Paese sotto controllo militare, ventiquattro ragazzi ammazzati, ottantanove scomparsi, desaparecidos che già le famiglie piangono come morti.
Nella primavera di settantatré anni fa il giovane Gabo, matricola di giurisprudenza, assiste sgomento al Bogotazo: la rivolta popolare e la feroce repressione, gli scontri sanguinosi che mettono a ferro e fuoco la capitale dopo l’assassinio del leader liberale Jorge Eliécer Gaitán. Così la racconta: “La Colombia è fottuta, hanno appena ammazzato Gaitán davanti al Gatto nero! Poco prima di mezzanotte, quando si calmò la pioggia, siamo saliti sulla terrazza per vedere il paesaggio infernale della città illuminata dagli incendi. In fondo, le colline di Monserrate e Guadalupe si stagliavano come due grandi ombre contro il cielo soffocato dal fumo, ma l’unica immagine che io continuavo a vedere era il sangue e la faccia del moribondo che da terra mi supplicava invano che lo aiutassi. In strada la caccia all’uomo stava terminando, nel silenzio si sentivano solo i colpi isolati dei cecchini appostati sugli edifici e il fragore dei blindati che avevano ormai schiacciato la resistenza armata e disarmata e controllavano il centro della città. Un paesaggio di morte, davanti a cui Jaunito espresse con un sospiro il sentimento di tutti: Dio mio, questo è un incubo…”.
Il Bogotazo dell’aprile 1948 è insieme l’atto fondativo e la ferita mai sanata nella storia moderna della Colombia. Da quella remota battaglia di strada nasce la violencia: la guerra che per quarant’anni ha sequestrato l’intero Paese e che ancora lo tiene in ostaggio. Gli sconfitti di allora lasciarono la città e scelsero la guerriglia sui monti. Sognavano una nuova società comunista, ma nelle selve del Cauca, del Chocó e di Antioquia prima vennero a patti con i trafficanti di armi, poi si contaminarono con i potentissimi trafficanti di droga. E anche l’esercito mandato a combattere gli insorti si frantumò nelle milizie paramilitari: spietati cacciatori di teste anche loro venduti al narcotraffico. Un fiume di denaro armi droga e violenza: la guerriglia diventò così uno sporco affare; e negli anni decine di migliaia di contadini furono tormentati e uccisi, cacciati dalle loro terre, trasformati in profughi a chiedere l’elemosina nelle periferie delle città.
Il Bogotazo di oggi è figlio di questa storia oscura. La miccia che ha fatto esplodere la protesta popolare è una riforma fiscale che penalizza ancora di più i redditi bassi. Ma la trappola poteva scattare in qualsiasi momento: da anni la Colombia vive sull’orlo del baratro, esposta ai colpi di una triplice aggressione: un’economia disastrata, l’effetto destabilizzante di quasi due milioni di profughi arrivati dal Venezuela, e infine la mazzata finale della pandemia. Qui uno dei lockdown più lunghi del mondo ha causato enormi problemi economici, con la chiusura di oltre cinquecentomila attività, con il 43% della popolazione che vive in povertà, con quasi tre milioni di persone che cercano di campare con meno di quaranta dollari al mese.
L’incendio colombiano indica un pericolo più vasto, che gli osservatori avvertono e segnalano fin dalla fine del 2019. In tutta l’America latina il contagio della pandemia ha determinato la rovina economica e insieme il cortocircuito delle tensioni sociali. All’orizzonte si delinea il collasso delle fragili classi dirigenti, e sempre una politica debole risponde alla sfida della piazza con la violenza militare.
I fuochi di guerra civile che sconvolgono la capitale colombiana costituiscono il primo fatale risultato di questa crisi generale. Dalla Bolivia all’Ecuador, dal Perù al Cile e al Venezuela, il copione è lo stesso di sempre: alle manifestazioni pacifiche fanno seguito distruzioni e saccheggi, occupazioni e blocchi stradali, assalto alle stazioni di polizia. Il presidente conservatore Iván Duque risponde con il pugno duro e con quella che lo scrittore Juan Cárdenas – dalle colonne del País – chiama “la guerra contro il popolo”. Leggiamo: “Scrivo queste note dalle montagne del Cauca, una delle regioni più castigate dal conflitto della guerriglia. Negli ultimi giorni ho visto passare decine di elicotteri, dalla mia finestra sento gli spari, le grida, le sirene delle ambulanze, vedo il fumo dei lacrimogeni lanciati contro le barricate che interrompono la Panamericana a pochi chilometri da qui”. Lo stesso succede nelle stesse ore per le strade della capitale. Così un Paese che è stato diviso per quarant’anni, oggi si scopre immerso nella stessa tragedia: non c’è più una Colombia che guarda la guerra in televisione e un’altra che la soffre sulla propria carne.
Così ancora scriveva nell’aprile 1948 il giovane García Márquez: “Ci siamo avviati per la Carrera Octava verso il Campidoglio, quando una scarica di mitraglia ha investito i primi che si affacciavano in Piazza Bolívar. In mezzo alla via ci siamo trovati davanti a un mucchio di morti e feriti. Da terra un moribondo pieno di sangue mi afferra l’orlo dei pantaloni e grida: ‘ragazzo, non lasciarmi morire!’”.E questo raccontano oggi i testimoni della mattanza di Bogotà: un elicottero in picchiata contro la folla che manifesta pacificamente in un parco, un gruppo di poliziotti che passano in moto davanti a un ragazzo e gli sparano a bruciapelo un colpo di pistola, un carrarmato dell’esercito che lancia razzi contro un quartiere popolare diventato obiettivo di guerra. “Nos matan, ci uccidono”, scrivono gli studenti sugli striscioni che aprono i cortei subito dispersi dai lacrimogeni.
Riuscite a vedere la differenza con i giorni del 1948? Una sola: qui e oggi non c’è un martire della democrazia come fu Jorge Eliécer Gaitán, e non c’è un García Márquez che possa raccontarla.