E così la premier Giorgia Meloni ha finalmente parlato con il vero Moussa Faki, presidente della Commissione dell’Unione africana, quello con cui la burla di due comici russi le aveva fatto credere di conversare al telefono, nel settembre scorso. Meloni ci ha anche scherzato sopra, per la gioia di fotografi e giornalisti; ma quello che poi Moussa Faki ha detto nell’aula del Senato – dove si è svolto, il 29 gennaio, il vertice Italia-Africa – avrebbe probabilmente preferito non ascoltarlo.
A proposito del Piano Mattei, Faki ha detto una semplice scomoda verità: “Avremmo voluto essere consultati”. Un’affermazione lasciata cadere, tra le altre, che hanno puntualizzato la visione dell’Africa, ma che smentisce una delle tante, troppe, dichiarazioni che la presidente del Consiglio ha fatto sul Piano. In visita in Mozambico, nell’ottobre scorso, davanti al vuoto pneumatico di indicazioni che chiarissero che cosa fosse il tanto decantato Piano Mattei (di cui abbiamo parlato qui), Meloni disse che doveva essere “scritto con l’Africa”. In apertura del suo discorso al vertice Italia-Africa, aveva ribadito: “Il Piano è pensato come una piattaforma programmatica aperta alla condivisione e alla collaborazione”. Con ogni evidenza, non è questa l’impressione del presidente della Commissione dell’Unione africana.
I partecipanti al vertice – 46 Stati rappresentati su 55 che ne conta l’Unione africana, ma un suo membro, il Sahara Occidentale, non è stato invitato per non urtare il Marocco – si sono trovati di fronte a cinque “pilastri” già scritti: istruzione e formazione, agricoltura, salute, energia, acqua. Nel suo intervento, Moussa Faki, elencando le priorità africane (agricoltura, infrastrutture, ambiente, energia, salute, educazione, digitalizzazione) ha dato atto che il Piano abbonda largamente in questa direzione. Ha comunque evidenziato, con grande franchezza, anche gli ostacoli che oggi l’Africa incontra nel realizzare le proprie priorità: peso del debito estero, cambiamento climatico, aumento dell’estremismo violento e del terrorismo, instabilità politica e istituzionale, deficit di finanziamenti e gravi errori nella governance.
Con altrettanta franchezza, Faki ha dettato i princìpi e i limiti entro i quali si deve iscrivere un partenariato tra Italia, Unione europea e Africa. Il primo è quello della libertà e del consenso, vale a dire: nessun tipo di ricatto o di pressione sugli Stati africani che non da oggi, ma soprattutto nell’ultimo anno, stanno rivedendo il loro posizionamento rispetto alle grandi potenze mondiali. Non a caso erano assenti dal vertice Niger, Mali e Burkina Faso, che hanno rivisto la loro collocazione rispetto alla Francia e all’Occidente in generale. L’altro aspetto evidenziato è quello del reciproco vantaggio. Il Piano, insomma, non dev’essere nel solo interesse dell’Italia, e l’Africa non tende la mano ai suoi partner per mendicare aiuti, chiede anzi un cambio di paradigma nella concezione del partenariato.
Per essere ancora più chiaro, il presidente della Commissione dell’Unione africana ha affrontato il tema delle migrazioni, che non figurano tra i “pilastri” ma sono tra le priorità di fatto del Piano stesso. “La portata del nostro partenariato su questo tema – ha sottolineato Faki – resterà limitata fino a quando non ci sarà una modifica strutturale del modello di sviluppo, compreso un nuovo approccio alla gestione dei flussi migratori”. Insomma, la palla non è nel campo africano bensì italiano ed europeo: saranno loro a dover cambiare il modo di gestire i flussi e a dover superare le situazioni strutturali a livello planetario che determinano le migrazioni.
Moussa Faki ha affermato che l‘Africa è disposta a discutere della messa in opera del Piano, e però ha detto – con gentilezza, ma senza giri di parole – all’Italia e all’Unione europea che “capirete bene che non ci possiamo accontentare di sole promesse, spesso non mantenute”. Una lezione di cooperazione internazionale – ed è legittimo chiedersi se i membri del governo, schierati nell’aula del Senato, siano all’altezza di comprendere tale lezione, tante sono le esternazioni in cui l’altro africano in Italia è umiliato, sfruttato, deriso, respinto. L’impressione, infatti, è che la quasi totalità del governo sia convinta di poter lasciare andare in libertà le parole, tanto l’africano che è in Africa non sa, non ascolta, non capisce, è lontano.
Sul piano delle risorse, la premier ha annunciato 5,5 miliardi di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie. Di questi, circa tre miliardi provengono dal Fondo italiano per il clima; il resto dalle risorse della cooperazione allo sviluppo. Siccome non basterà, si pensa di coinvolgere l’Unione europea, le istituzioni finanziarie europee e internazionali, oltre ai privati. È chiaro da tempo, ormai, che l’Eni è uno dei pilastri di questa strategia, e Meloni anche in questa occasione non ha mancato di sottolineare l’ambizione dell’Italia di porsi come ponte energetico tra Europa e Africa.
Le Ong italiane hanno rivendicato il proprio contributo alla cooperazione internazionale, e contano di non venire dimenticate dalla politica governativa. Intanto, hanno ricordato al governo la distanza che separa l’Italia dall’obiettivo dello 0,70% del reddito nazionale destinato alla cooperazione allo sviluppo, poiché siamo fermi allo 0,32% del Rnl, pari a 4,5 miliardi di dollari, secondo l’Ocse. Una parte consistente di questo aiuto pubblico allo sviluppo, 1.480 milioni di dollari, è però assorbito dalle spese di gestione e per l’accoglienza dei migranti. Insomma, queste spese fanno del nostro Paese il primo beneficiario dei propri aiuti.