E se Taranto diventasse un po’ Mariupol, la città ucraina conquistata dai russi? Ricordate la distruzione e l’occupazione russa dell’acciaieria Azovstal? Il colosso siderurgico ucraino Metinvest ha deciso di investire anche in Italia. Per il momento a Piombino. Voleva trasformare l’acciaio prodotto a Mariupol in laminati. Dopo la distruzione degli impianti ucraini, con un partner italiano, Danieli, Metinvest ha sposato il progetto per un impianto green a Piombino di produzione di acciaio con forni elettrici. Il piano prevede la creazione di millequattrocento nuovi posti di lavoro (due miliardi e mezzo di fatturato).
L’amministratore delegato dell’azienda ucraina, Yuriy Ryzhenkov, in un’intervista al “Corriere”, si è dichiarato disponibile a valutare la possibilità di entrare in Acciaierie d’Italia, proprietaria della più grande acciaieria d’Europa, a condizione che si crei una reale collaborazione con le autorità centrali e anche locali. È tutto in discussione in questi giorni: il governo Meloni è alla ricerca appunto di nuovi partner, che subentrino al gruppo franco-indiano in uscita, ArcelorMittal. Tecnicamente, a partire dal 6 febbraio, il ministro per lo Sviluppo economico, Adolfo Urso, potrebbe infatti decidere l’amministrazione straordinaria degli impianti di Taranto, così come chiedono lavoratori, sindacati e imprese degli appalti. Peccato che la vertenza ex Ilva di Taranto non abbia ancora conquistato le prime pagine dei giornali. E speriamo che non finisca sotto i riflettori per motivi di ordine pubblico. In gioco ci sono dodicimila posti di lavoro, la salute dei cittadini, la salvaguardia dell’ambiente, la crisi climatica.
Davvero è incomprensibile perché l’opposizione al governo Meloni sia muta, non scenda in campo, non spinga i sindacati ad assumere posizioni decise sulla decarbonizzazione degli impianti, e si faccia ammaliare dall’obiettivo della salvaguardia dei posti di lavoro e basta. La vertenza dell’ex Ilva racconta questo, e anche dell’Europa di oggi in guerra, del conflitto tra Russia e Ucraina, della crisi economica. Oggi non si parla più della transizione ecologica perché l’Occidente è consapevole che su questo tema la Cina rischia di “volare”, di staccare tutti gli altri Paesi concorrenti. Pensate solo alle terre rare (che sono essenziali per realizzare prodotti di alta tecnologia), di cui la Cina possiede la maggior parte delle miniere attive. Alessandro Marescotti, ambientalista e pacifista, cita uno studio dell’Associazione mondiale dell’acciaio secondo cui “la capacità produttiva dell’acciaio, tre miliardi di tonnellate, è superiore alla domanda, 2,3 miliardi di tonnellate”. Nel mondo globalizzato non dovrebbero esistere più barriere e confini. Ma visto che la Cina ‘ospita’ milleduecento altiforni, dei duemila censiti al mondo, e dunque è il maggior produttore mondiale di acciaio, l’Italia, che pure potrebbe fare a meno degli impianti a ciclo integrale, deve stare al passo con la sfida alla Cina lanciata dai Paesi dell’Occidente a guida americana.
Una settimana ancora, dunque, e sapremo se il partner franco-indiano di Invitalia uscirà formalmente da Acciaierie d’Italia, lasciando sull’orlo della chiusura l’ex Ilva di Taranto. Il 6 febbraio, infatti, Invitalia (che detiene il 38% delle azioni di Acciaierie d’Italia) potrà chiedere al ministro Urso l’amministrazione straordinaria del gruppo siderurgico, lasciando andare via la società franco-indiana ArcelorMittal, che ha il 62% del pacchetto azionario. Sembra ieri quando il presidente di Acciaierie, Franco Bernabè, ripeteva come un mantra “decarbonizzazione o morte”. Invitalia caldeggiava la compatibilità ambientale dell’acciaieria introducendo i forni elettrici, come unica possibilità per non chiudere il più grande sito siderurgico europeo. Ma, nell’ottobre scorso, Bernabè ha annunciato che si era fermato il progetto della decarbonizzazione.
Il progetto era stato approvato, nelle sue linee essenziali, dal Consiglio di amministrazione di Acciaierie nella primavera del 2022. Prima la pandemia, poi la crisi energetica e la guerra russo-ucraina, hanno cambiato lo scenario, accentuando la crisi, manifestandosi “eccezionali difficoltà finanziarie”. Un solo esempio: i costi dell’energia, che Acciaierie deve sostenere, sono passati da duecento milioni a un miliardo e cinquecento milioni di euro.
Nel 2012 la magistratura di Taranto sequestrò gli impianti, dettò le regole e le direttive da seguire perché la produzione continuasse, mise in carcere i proprietari dell’acciaieria, la famiglia Riva, e i gruppi dirigenti degli impianti. Da cinque anni, ArcelorMittal si è aggiudicato la maggioranza del pacchetto azionario del gruppo diventato Acciaierie d’Italia. Fino al terremoto giudiziario, Taranto produceva anche dieci milioni di tonnellate di acciaio all’anno. Oggi, con due su quattro altiforni attivi, ne produce meno di tre milioni (nelle ultime settimane è attivo solo uno dei due). ArcelorMittal, in questi anni, ha remato contro la ripresa produttiva di Taranto. Servono cinque miliardi per finanziare il progetto per la decarbonizzazione. Due miliardi di finanziamento potrebbero arrivare dal Pnrr, gli altri da un nuovo partner disposto a entrare in Acciaierie d’Italia.
I sindacati aspettano il governo al varco. Il segretario della Uilm, Rocco Palombella, è l’unico che si sbilancia sposando la proposta di costruire due forni elettrici, ma lasciando in funzione anche un altoforno. Il sistema “misto” non risolve il problema dell’impatto ambientale. Semmai ne riduce la dimensione: c’è uno studio dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), commissionato dalla Regione Puglia, che documenta una riduzione della mortalità e delle emissioni a partire dalla retata giudiziaria del 2012, ma nello stesso tempo ipotizza che – anche se gli impianti dovessero essere messi a norma – avremmo comunque dei decessi provocati dall’inquinamento.
La nuova Autorizzazione integrata ambientale (Aia), la riduzione progressiva della produzione, hanno influito sui numeri. “Il Rapporto dell’Oms calcola in circa 270 morti premature (ma il range arriva fino a 430 decessi evitabili; intervallo annuo 27-43 morti premature) nei soli dieci anni relativi allo scenario produttivo pre-Aia 2010. Se fossero invece applicate le prescrizioni previste dall’Aia 2015, le morti premature non supererebbero le 50 unità (con un range fino a 80 decessi; intervallo annuo 5-8 morti premature) nel corso dei successivi dieci anni”. L’Oms ha anche stimato il danno economico per le mortalità premature: “almeno 85 milioni di euro l’anno per il periodo pre-Aia 2010, che scenderebbero a 53 con l’Aia 2012, e rimarrebbero comunque a 15 milioni se fossero applicate le prescrizioni post-Aia 2015”.
Per i sindacati la decarbonizzazione implica il “costo” di una riduzione della manodopera. Si guarda a quello che sta accadendo nel Galles. A Port Talbot il gruppo Tata Steel chiuderà a fine anno due altiforni, che producono 3,5 milioni di tonnellate di acciaio, avendo sposato un progetto green. Il costo della riduzione della forza lavoro è altissimo: il 70% dei dipendenti di Port Talbot saranno mandati via. Da quattromila a milleduecento lavoratori. Se anche a Taranto si fermassero gli altiforni, in cambio dei forni elettrici, l’80% dei lavoratori si troverebbe fuori dall’acciaieria. È vero che Taranto va bonificata, risarcita da cinquant’anni di amianto, polo chimico e Ilva. E dunque la città dei due mari sarebbe un laboratorio straordinario per sperimentare la transizione ecologica. Ma questa priorità non è nell’agenda di Palazzo Chigi, e non solo.