Che l’assioma secondo cui basterebbe produrre ricchezza, per garantire benessere a tutti, sia una balla, alla stregua delle teorie terrapiattiste, è ormai un dato acquisito. Il modello economico proposto negli anni Settanta da Milton Friedman, invece di garantire felicità, ha gettato sul lastrico una fetta enorme della popolazione, concentrando nelle mani dell’1% almeno la metà delle risorse del pianeta. Eppure del neoliberismo non solo non ci siamo (scusate il gioco di parole) liberati ma, al contrario, come dimostra il caso argentino (vedi qui) continua a fare “egemonia”, per usare un termine ritornato di moda. A questa regola non sfugge la Gran Bretagna, una delle patrie degli “spiriti animali” del capitalismo, dove un quinto della popolazione, circa dieci milioni di uomini e donne, vive in uno stato di semipovertà, e un milione e mezzo in povertà assoluta – come raccontano bene i film di Ken Loach.
Ma la praticamente certa vittoria dei laburisti, guidati da Keir Starmer, nelle prossime elezioni del 2024, in data ancora da stabilire, potrebbe produrre ben poco in termini di guerra alla povertà, visto che il modello di riferimento del leader laburista è Tony Blair, quello che con il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, diede vita negli anni Novanta alla “terza via”, che a suo tempo suscitò l’interesse anche di Massimo D’Alema. Con il vento in poppa nei sondaggi – qualcuno li darebbe al 60% dei consensi, cioè 18-20 punti in più dei Tories – non dovrebbero avere vita difficile nella sfida contro un Partito conservatore che sta facendo rivoltare nella tomba un Churchill o una Thatcher, con i suoi tre governi in una sola estate e cinque in pochi anni, con personaggi uno più imbarazzante dell’altro, i quali, in tredici anni di governo, hanno prodotto solo macerie. Basti ricordare l’avventurismo di Boris Johnson e ancor più di Liz Truss, una fanatica del liberismo, che ha fatto preoccupare perfino il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, spingendola alle dimissioni dopo soli quarantacinque giorni. Ora, per risalire la china, i conservatori potrebbero tentare la carta stravagante dell’attuale ministra del Commercio, Kemi Badenoch, donna di origine africana che sostiene che “il colonialismo ha fatto anche cose buone”.
Starmer, nel 2020, è subentrato a Jeremy Corbyn, che aveva tentato di collocare il Labour a sinistra, dopo la sconfitta del partito guidato da Ed Miliband nelle elezioni del 2015, vinte dai Tories di David Cameron. Colpevole di scarsa simpatia nei confronti della Nato, contrario oggi all’invio di armi a Kiev, e apertamente filopalestinese, tanto da essere infangato dalle scontatissime accuse di antisemitismo, Corbyn – dopo un’elezione a furor di popolo nelle primarie del 2015 – era stato cacciato dalla leadership con una vera e propria purga, colpevole di avere messo in discussione la linea del partito socialdemocratico più filocapitalista d’Europa. Starmer, che ha fatto riemergere con le sue scelte il vecchio Peter Mandelson, non potrà ignorare i gravi problemi sociali che affliggono il Regno Unito, e dovrà creare, se è lecita una definizione del genere, un “blairismo di sinistra”.
D’obbligo una riverniciatura di “nuovo” a fronte del presunto “invecchiamento” nel quale Corbyn avrebbe fatto precipitare il partito – dimenticando che l’arrivo di Tony Blair nella politica britannica è di oltre trent’anni fa, e la sua ideologia ancora più antica. Ma il programma del Labour – presentato nel congresso dello scorso ottobre – non potrà non tenere conto di un servizio sanitario nazionale ridotto quasi a zero dai continui tagli, insieme alla costruzione di infrastrutture con un fondo pubblico, una modifica del sistema fiscale, affrontando poi il delicato tema del lavoro con l’attuazione di norme che riducano la flessibilità selvaggia e aumentino il salario minimo. Il leader laburista dovrà inoltre garantire una rinnovata stabilità economica, una diminuzione del debito, evitando un aumento delle tasse, con una gestione equilibrata dell’intervento pubblico nell’economia. Molte gatte da pelare, insomma, per la ministra-ombra Rachel Reese, stella nascente dello storico partito della sinistra britannica, economista di formazione, studi a Oxford e alla London School of Economics, già impegnata presso la Banca d’Inghilterra e negli Stati Uniti, e sostenuta dall’ex governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, a suo tempo gradito ai Tories. Potrebbe diventare la prima donna cancelliere dello Scacchiere (cioè ministra delle Finanze) in ottocento anni di storia.
Contro il segretario si è schierato il sindacato, principale sostenitore di Corbyn e, nel passato, acerrimo nemico di Tony Blair. Una delle principali accuse mossegli riguarda l’assenza dal programma elettorale della nazionalizzazione di gas, elettricità e servizi pubblici, mentre, obtorto collo, Starmer dovrà affrontare il tema delle ferrovie, che anni di privatizzazioni hanno ridotto in uno stato catastrofico. Nessuna tassazione invece per gli extra-profitti.
Sulla politica estera, lo scorso novembre, ben cinquantasei deputati, di cui dieci esponenti del governo-ombra, si sono dimessi o sono stati allontanati per avere sostenuto la proposta di “cessate il fuoco” a Gaza e del rilascio dei prigionieri israeliani (che è poi la linea dei partiti socialisti europei, compreso il Pd di Elly Schlein, ma che secondo Starmer sarebbe troppo filopalestinese). Il segretario aveva fatto la proposta ridicola di “pause umanitarie”, che permetterebbero ai palestinesi e alle palestinesi di mangiare un panino tra una bomba e un’altra.
Dicevamo della pressoché certa vittoria del Labour alla prossima tornata elettorale. Tuttavia, secondo i sondaggi, mancherebbe una trentina di seggi per raggiungere la maggioranza assoluta, che potrebbe essere conseguita con un’alleanza con i liberali, quindi annacquando ulteriormente il programma economico-sociale di Starmer. Questo scenario non è certo nuovo, in Gran Bretagna e altrove. Tranne in Spagna, dove il Partito socialista è alla testa di un governo su alcuni temi decisamente schierato a sinistra, per il resto gli altri partiti dell’area cercano di barcamenarsi tra politiche liberiste “dal volto umano” ed elementi di keynesismo. Ma è ancora possibile coniugare ricette così diverse?
La risposta data da Enrico Colombatto, professore ordinario di Politica economica presso l’Università di Torino, è netta: tra liberismo e socialismo “non esistono soluzioni di compromesso, né terze vie – dice in un’intervista rilasciata al “Sole 24 Ore” –, esistono forme di socialismo più o meno accentuate, ma pur sempre di socialismo si tratta. Chi fa appello a diverse nozioni di bene collettivo – aggiunge il professore – o alla necessità di ridurre la disuguaglianza non propone soluzioni di compromesso, ma giustifica una visione che è comunque socialista, poiché impone le scelte di una maggioranza o di un’autorità e viola la libertà d’azione di coloro che non sono d’accordo”. Un’affermazione tranchant, che però ha il merito di dire una cosa. Con queste disuguaglianze e con l’impoverimento in Occidente della stessa classe media l’era dei compromessi è finita. O si sta con l’1% della popolazione o con gli altri. Per un partito di sinistra non dovrebbero esserci dubbi su chi rappresentare, su quali battaglie intraprendere. Ma, appunto, il condizionale è d’obbligo.