Quale ruolo giocano i cattolici all’interno del Partito democratico? Il tema non è nuovo, ma si è riproposto con forza quando, al consiglio regionale del Veneto, la legge sul fine vita, che il presidente leghista, Luca Zaia, aveva coraggiosamente presentato, è stata bocciata, come previsto, da un pezzo importante della sua maggioranza, ma anche con l’astensione della cattolica democratica Anna Maria Bigon, la cui scelta è stata determinante. Che la consigliera – che ricopre anche il ruolo di vicesegretaria provinciale del Pd – fosse ben decisa ad affondare la proposta di legge, è dimostrato dalla scelta di non uscire dall’aula, il che avrebbe permesso l’approvazione della norma. Ma lei, pronta a quanto pare ad approdare presso altri lidi, si è giustificata dicendo che lo statuto del partito prevede la “libertà di coscienza”: a dimostrazione dell’incapacità del Nazareno di assumere una posizione netta su questo come su altri temi.
L’accaduto, come dicevamo, ripropone l’interrogativo sul rapporto tra i cattolici postdemocristiani e il mondo progressista nel suo complesso. Scomparsa la Democrazia cristiana, cambiato radicalmente il panorama della sinistra italiana, tutto si è modificato: quello che fu il partito di maggioranza relativa, durante la storia della cosiddetta Prima repubblica, si divise tra una destra – vedi l’Unione democratica cristiana (Udc) di Rocco Buttiglione e Pier Ferdinando Casini – e una sinistra, con la nascita della Margherita. L’arrivo di Romano Prodi e l’esperimento dell’Ulivo dimostrarono comunque – almeno in un primo momento, con la doppia vittoria del 1996 e del 2006 contro Silvio Berlusconi – la vitalità di un universo da cui poi nacque il Partito democratico, erede appunto dell’Ulivo, guidato dall’ex comunista Walter Veltroni, che tentò di mettere insieme gli eredi del più grande partito della sinistra italiana con la parte migliore della Dc.
Ma questo percorso inizia subito con il piede sbagliato. Nelle liste del Pd, in occasione delle elezioni poi perse del 2008, trova spazio la psichiatra Paola Binetti, cattolica integralista che considera gli omosessuali persone da curare. Dopo la parentesi delle segreterie Bersani ed Epifani, nel 2013 si ripropone con forza la questione cattolica. Il giovane Matteo Renzi, proveniente dalla Margherita, ex scout che dice di collocare l’ex sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, nel suo pantheon, diventa segretario, mentre l’argentino Jorge Mario Bergoglio viene eletto papa. Azzardando un confronto improprio – ma non troppo –, i due non potrebbero essere più diversi: il primo, messa da parte l’attenzione ai temi sociali tipica del cattolicesimo progressista, diventa un politico prima e un uomo d’affari poi, spregiudicato e privo di etica, smantellatore dei diritti dei lavoratori con la cancellazione dello Statuto attraverso il jobs act e quant’altro. Il pontefice, invece, si rivela un uomo attentissimo ai temi della giustizia sociale, della battaglia contro le disuguaglianze, della difesa dell’ambiente, della pace. Anche sui diritti civili Bergoglio fa fare alcuni, sia pur timidi, passi avanti alla Chiesa. Ma tutto ciò non trova spazio nel Pd renziano e, più in generale, tra coloro che dovrebbero ascoltare il capo della Santa Sede, mentre sembrano quasi osteggiarlo al pari della destra. Al riguardo, non si distingue l’ex segretario (ed ex Margherita), Enrico Letta, sia sui temi economico-sociali (vedi l’agenda Draghi) sia sulla questione russo-ucraina, dove sposa, quasi ai limiti del fanatismo, la posizione della Nato.
Insomma, nessuna delle riflessioni di papa Francesco sembra stimolare i cattolici del Pd. La risposta sul perché di questo scenario non è complicata. Pur senza il clamore mediatico di Matteo Renzi, la gran parte degli esponenti cattolici del Pd si colloca nella cosiddetta “base riformista”, vera e propria palla al piede per chiunque voglia trasformare la tormentata creatura veltroniana in qualcosa di sinistra: un’operazione che la segretaria Elly Schlein, con fin troppa incertezza, sta tentando. È bastato questo tentativo a provocare la fuga di un Beppe Fioroni o di un Enrico Borghi. Gli sforzi del Vaticano, così come le missioni del cardinale Zuppi per aprire uno spiraglio di pace, in un contesto in cui la diplomazia è un attore dimenticato, non interessano. Tanto quelli – sembrano voler dire i cosiddetti “riformisti” – sono prelati, il papa fa il papa e Zuppi fa Zuppi: cosicché porsi degli interrogativi sarebbe fuori luogo.
La musica non cambia quando si parla di problemi sociali e di diritti all’interno di un mondo del lavoro in cui non si riescono a contrastare le ricette liberiste. A cominciare dal salario minimo. Lo stesso ex governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, aveva messo l’accento sulla necessità di introdurre questa misura – idem Andrea Garnero, autore del rapporto Ocse sull’impiego 2023 –, ma la risposta da parte dei “riformisti” con la croce è stata quanto meno fredda, forti anche del “no” della Cisl, storico sindacato cattolico diventato ormai filogovernativo a prescindere. Assenti anche sui temi dell’immigrazione: l’attivismo della Comunità di Sant’Egidio e del suo “braccio politico” Demos, presente nelle liste del Pd nelle ultime elezioni, nonché di altre associazioni cattoliche, appaiono distanti da questi improbabili personaggi senz’anima, in attesa solo di una qualche collocazione in un centro al quale credono solo loro e il Calenda di turno. Appare evidente come tutto questo non abbia nulla a che fare con la fede.