Ha prevalso la prudenza. Anche se alle presidenziali di sabato scorso a Taiwan (dove sono andati al voto 19,5 milioni di elettori ed elettrici su una popolazione di oltre 23 milioni) si è affermato di nuovo il Partito democratico progressista (Pdp), nella persona dell’ex vicepresidente Lai Ching-te che ha preso il posto di Tsai Ing-wen, sia i dati sia le reazioni internazionali fanno pensare a un mantenimento dello status quo. Certo, l’affermazione di coloro che nel Paese sono i più fervidi sostenitori dell’indipendenza da Pechino lascerebbe pensare il contrario; ma i consensi nei confronti del nuovo capo dello Stato e del suo partito segnalano un allontanamento da quello scenario. Il Pdp, infatti, perde la maggioranza assoluta allo Yuan legislativo, il parlamento dell’isola. Un calo costante negli ultimi anni di storia dell’ex Formosa: si è passati dai 68 seggi del 2016, sui 113 complessivi dell’assemblea, ai 61 del 2020, ai 34 di oggi contro i 32 del Kuomintang, lo storico partito cinese nazionalista– quello di Chiang Kai-shek, interlocutore privilegiato di Pechino, che fino al 1945 combatté con i comunisti contro i giapponesi – e attualmente è il più favorevole al dialogo con la Repubblica popolare. Al Partito del popolo di Taiwan (Tpp), terza forza politica di stampo progressista,fondata nel 2019, restano una decina di seggi. Lai ha conseguito il 41,57% dei consensi, seguito da Hou Yu-ih del Kmt al 33,15% e Ko Wen-je del Tpp al 25,28%.
Questi dati sottolineano la diversità del sistema democratico dell’isola da quello autoritario di Pechino, che ha ribadito “l’inevitabilità della riunificazione”, ma al tempo stesso invitano alla prudenza e al dialogo: posizione che si evincerebbe anche dalle prime dichiarazioni del vincitore: “Non c’è alcuna volontà – ha dichiarato Lai – di proclamare formalmente l’indipendenza, la nostra isola è già sovrana di fatto e lo status quo nello Stretto serve l’interesse della stabilità mondiale”.
Lo stesso presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha riaffermato che gli Usa “non sosterranno l’indipendenza”. Al riguardo, è importante ricordare che, pur sostenuta con forza da Washington anche attraverso l’invio di armi, e dall’Occidente nel suo complesso, Taipei non è riconosciuta né, com’è ovvio, dalla Repubblica popolare cinese, né, de iure, dagli altri quattro membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (Stati Uniti, Russia, Regno Unito e Francia), nonché dal Canada, dal Giappone e dagli altri Stati dell’Unione europea, pena una rottura impensabile delle relazioni diplomatiche con Pechino.
Questo scenario è confermato dal fatto che la piccola isola (quasi 36.000 km²) non ha rappresentanze diplomatiche all’estero, soltanto commerciali. Un elemento che dà forza al Dragone, che ha sempre ritenuto la questione un proprio affare interno. Il gigante asiatico ritiene “che la comunità internazionale continuerà ad aderire al principio dell’unica Cina e a comprendere e sostenere la giusta causa del popolo cinese di opporsi alle attività separatiste dell’indipendenza di Taiwan (all’interno della quale Pechino ha i propri punti di riferimento, ndr) e di lottare per raggiungere la riunificazione nazionale”.
Tra una dichiarazione distensiva e la necessità di mostrare i muscoli, Lai come vice ha designato una donna. Si tratta di Hsiao Bi-khim, 52 anni, una sfida per Pechino, visto che la signora è stata per tre anni l’ambasciatrice di fatto negli Stati Uniti, e dunque collocata dalla Cina nella sua lista nera. La donna ha il soprannome di cat warrior, “gatta guerriera”, che si fa beffe dei “lupi guerrieri” ovvero i diplomatici cinesi. L’importanza di Taipei va al di là della questione nazionale. In realtà, perdere il controllo di quell’area a favore dell’Occidente per la Cina sarebbe un danno enorme. L’isola è situata in un luogo strategicamente cruciale per le rotte del Mar cinese meridionale. C’è poi la produzione degli avanzatissimi microchip della Tsmc taiwanese, di cui hanno assoluto bisogno sia la Cina sia gli Stati Uniti. Troppi interessi economici per potersi permettere una guerra, che costerebbe secondo alcuni osservatori dai diecimila miliardi di dollari in su.
Secondo Guido Alberto Casanova, ricercatore dell’Osservatorio Asia dell’Ispi (Istituto studi politiche internazionali), “è improbabile che la Cina possa decidere di invadere Taiwan”, perché “in caso di invasione le ritorsioni economiche per la Cina (che per l’approvvigionamento di energia, cibo e microchip dipende molto dall’estero) sarebbero estremamente pesanti, ma probabilmente non quanto quelle militari, dal momento che, con tutta probabilità, a difesa di Taiwan si schiererebbero le forze armate degli Stati Uniti”. Se aggiungiamo che la Cina approfitta di questo scenario ambiguo per mantenere rapporti commerciali con Taiwan, che nel 2022 ammontavano a oltre duecento miliardi di dollari, potremmo concludere, azzardando, che da quelle parti non si dovrebbe andare oltre le consuete esibizioni muscolari.