Verso dove va l’“oscura, pesante Terra” come la chiamava il filosofo Ernst Bloch? In quale direzione e in che modo si è storicamente sviluppato il dominio di alcuni Paesi sul mondo? Chi può dire di controllarlo oggi? Sono quesiti che si è posta da mezzo secolo la scuola legata al pensiero di Immanuel Wallerstein, ideatore della ricostruzione storico-sociologica dell’affermarsi del capitalismo occidentale su scala planetaria che va sotto il nome di “sistema-mondo”. Per Wallerstein e i suoi seguaci, il capitalismo, nella sua irresistibile dinamica espansiva, ha progressivamente “colonizzato” il pianeta, a partire dai primi passi mossi nell’Europa cinque-seicentesca, tra Venezia e Amsterdam, per diventare poi – negli anni dell’imperialismo e dello sviluppo dell’industria – il sistema mondiale predominante.
Nel suo “farsi mondo” il capitalismo si è giovato, di volta in volta, di diverse potenze commerciali e militari che hanno esercitato un dominio pressoché incontrastato nelle loro aree di influenza: inizialmente, l’egemonia è stata delle città-Stato europee, Genova e Venezia, poi dell’Olanda, nell’Ottocento dell’Inghilterra, e infine degli Stati Uniti. A lungo potenza egemonica, dunque, quella americana, che ha però conosciuto un offuscamento a partire dalla crisi del 2007-2008, mostrando difficoltà crescenti a governare il mondo.
Proprio da un seguace eretico di Wallerstein, l’italiano Giovanni Arrighi, sono venuti contributi che mostrano un ulteriore slittamento dell’asse del dominio mondiale verso l’Oriente, verso la Cina. In un celebre testo di inizio millennio, Adam Smith a Pechino del 2007, Arrighi ha teorizzato la tendenziale sostituzione dell’Occidente come potenza egemonica da parte della Cina. Ma il capitalismo cinese quanto è veramente capitalismo? Non si tratta solo del ruolo che in esso giocano lo Stato e il partito-Stato che lo governa, ma di un percorso eterodosso rispetto a quello seguito in Occidente.
La Cina si è profondamente integrata nell’economia mondiale. Tuttavia, la graduale industrializzazione e apertura al commercio internazionale ha facilitato l’ascesa del Paese, senza portare alla sua assimilazione totale al neoliberismo globale. Nel primo decennio dopo la morte di Mao, i governanti hanno scelto di utilizzare le istituzioni dell’economia pianificata per la creazione del mercato, evitando le terapie d’urto. La Cina ha così intrapreso un’espansione economica senza precedenti per portata e ritmo; mentre l’economia russa, sottoposta a una sfida analoga negli anni Novanta, è crollata proprio a causa di una terapia d’urto. L’avvento della Cina come potenza mondiale è dunque all’insegna di una maniera diversa di concepire e organizzare l’economia: maniera che forse non è nemmeno più riconducibile al paradigma del capitalismo occidentale, come si è dispiegato attraverso i secoli attraverso i suoi diversi centri di irradiazione e sviluppo, ed è certo lontana dai criteri economici cui si attiene il Washington Consensus.
Due capitalismi allora? O la fine del capitalismo come lo avevamo in precedenza conosciuto, come peraltro sosteneva l’ultimo Wallerstein, e l’avvento possibile di nuovi modelli di organizzazione economica e sociale? Difficile dirlo, ma certo, con la crescita della influenza e del potere cinese, si profila per lo meno la fine del progetto istituzionale e coloniale dell’Occidente, così come si era costituito, diffuso e imposto nelle sue varie articolazioni locali, e vacillano gli equilibri planetari.
La virata a est della centralità economica non si accompagna, però, a una dichiarata aspirazione al dominio politico: i dirigenti cinesi continuano, almeno a parole, a fare riferimento alla teoria maoista dei “tre mondi”, ossia di una classificazione delle nazioni in ragione delle loro pretese egemoniche in tre grandi gruppi, in cui la Cina doveva avere unicamente il ruolo di guida delle nazioni arretrate. Certo è che l’ordine mondiale, come si era costituito in passato, vacilla: la crisi dell’egemonia statunitense schiude uno spazio di incertezza, in cui, se non è detto che la Cina con le sue peculiarità possa o voglia inserirsi come nuova potenza egemone, si profila un mondo molto meno “centralizzato” che in passato, e, in barba alle ipotesi della teoria di Wallerstein, che prevedeva un succedersi di centralizzazioni e decentramenti, non si intravede per il momento una nuova “ricentralizzazione”.
Per certo si smarrisce la pretesa di centralità dell’Occidente, che diviene solo una componente tra le altre del capitalismo contemporaneo. È perciò più facile parlare di tendenze alla costituzione di diverse polarità di potere, di un “multipolarismo” o meglio di un “policentrismo”, tutto in divenire, i cui sviluppi sfidano le precedenti logiche territoriali; basterebbe pensare agli spazi operativi del capitalismo contemporaneo, per esempio alle catene della logistica, che tagliano e attraversano gli spazi politici nazionali formalmente costituiti. Una cartografia stantia continua a legare insieme capitalismo e territorialismo, mentre si profilano nuove linee e mappe. Ma queste nuove linee non necessariamente individuano nuove centralità; mentre piuttosto si disegna quel che è stato definito un “multipolarismo centrifugo”, certo anche basato sulla crescente posizione di forza della Cina, come ha fatto rilevare Sandro Mezzadra, in una bella recensione del libro di Arrighi.
Guerre e conflitti accompagnano dunque questo passaggio d’epoca e la ancora incompiuta “transizione egemonica”: conflitti che si situano non più ai margini, ma sono al centro dei grandi flussi economici, e introducono interruzioni e arresti. A mettere a rischio gli equilibri, non sono solo le guerre che coinvolgono grandi potenze, ma anche i conflitti locali, che possono assurgere a momenti di intoppo per un’economia planetaria che si rivela più fragile del previsto: si pensi ai barchini degli Huthi filoiraniani, che in questi giorni bloccano il traffico commerciale nello stretto di Suez.
Così, tra crisi e guerre, lo slittamento dei centri di potere è in corso, ma per il momento ancora rinviato. Lo strapotere militare americano continua, sia pure con sempre maggiore fatica, a tenere insieme un mondo che sfugge, e in cui le linee di frattura che si disegnano rischiano ogni volta di rappresentare il preludio a un possibile definitivo collasso.