Per la disperazione dei commentatori euro-ortodossi nell’ultimo Consiglio europeo non è successo granché. È arrivata l’apertura – a forte connotazione simbolica – al negoziato di adesione dell’Ucraina, ma i fondi ulteriori per la guerra sono bloccati o frenati per ora dal “no” ungherese; e ancora: rinvio sul bilancio comunitario, nulla di fatto sul fronte del nuovo Patto di stabilità (formalmente non in agenda ma oggetto ovviamente di colloqui fra i leader). Se ne parlerà all’Ecofin di mercoledì 20 dicembre, ma le modalità scelte dalla presidenza di turno spagnola per la riunione dei ministri economici (collegamento da remoto invece che vertice in presenza) fanno dire agli osservatori più attenti che non sarà nemmeno quella la sede per una decisione. Non a caso sul confindustriale “Sole 24 Ore” c’è chi ha rilanciato la richiesta del superamento delle vecchie regole comunitarie fondate sul principio della sintesi e dell’unanimità fra gli Stati membri. Mettendo da parte gli azzardi dei politologi, comunque, visto l’anno elettorale in arrivo, con il voto per il parlamento europeo e il successivo cambio della guardia alla Commissione europea, il dato di fatto è che i tempi per la conclusione di un negoziato reale sul nuovo Patto sono sempre più stretti.
L’Italia di Giorgia Meloni si accontenta per ora di rivendicare la sua capacità di “parlare con tutti” – leader ungherese Orbán compreso – e canta vittoria per qualche miliardo destinato dai partner alla gestione dei flussi migratori. Sullo sfondo, la convinzione che l’unica strada sia quella indicata a suo tempo da Angela Merkel, con l’accordo Ue-Turchia del 2016, e, in modo più rozzo, dalle intese siglate nel 2017 dall’allora ministro Pd dell’Interno, Marco Minniti, con le traballanti istituzioni libiche: l’esternalizzazione delle frontiere, costi quel che costi (soprattutto a profughi e migranti tenuti con le buone e con le cattive lontani dalla fortezza Europa). Idea che, per ora, è stata replicata con il bizzarro accordo di “ospitalità” siglato fra Italia e Albania ma bloccato dalla locale Corte costituzionale.
La settimana scorsa, ha visto un altro spettacolare show in parlamento della presidente del Consiglio sul Mes, con il famoso fax sventolato in aula, che dimostrerebbe la scorrettezza di Giuseppe Conte, firmatario a suo tempo – su mandato del parlamento – dell’intesa per la riforma del discusso strumento finanziario intergovernativo. Non è un caso, perché, di rinvio in rinvio, la maggioranza di destra-centro prima o poi dovrà decidere che cosa fare: se rischiare ulteriori tensioni con la Lega o dare una delusione ai suoi interlocutori europei, dei quali, al di là delle posture più propagandistiche, Meloni ha ammesso da tempo di non poter fare a meno su troppi dossier delicati. Della riforma del Patto di stabilità e crescita abbiamo parlato altre volte (per esempio qui). E per quanto riguarda le regole e i vincoli europei sulla finanza pubblica nazionale, come accade da diversi anni a questa parte, è sulla Francia guidata da Emmanuel Macron che poggiano le speranze di Roma di poter resistere al nuovo assalto da parte dei “Paesi frugali”, che fanno da fanteria della Germania.
Anche la Francia ha conti pubblici devastati dalla pandemia e dalle conseguenze della guerra russo-ucraina: un deficit atteso al 4,4% del Pil nel 2024, un grado di sofferenza elevato per il costo da pagare alla politica di tassi elevati della Bce, nessuna fretta di obbedire a piani di rientro del debito troppo dipendenti dal giudizio di Bruxelles o dei partner europei. Ma la convergenza transalpina è sempre storicamente instabile, vissuta all’Eliseo come tattica più che come strategia: a nessun presidente francese può sfuggire che storicamente l’asse principale della costruzione europea è quello che riposa sulla strada fra Berlino e Parigi. Il rischio che all’ultimo il cerino resti in mano all’Italia è sempre vivo.
Per far fronte alla modestia dei risultati e alle difficoltà, anche interne alla maggioranza, riscontrate sulla legge di Bilancio, Meloni intanto rilancia la sua immagine di capopopolo della destra più identitaria. Lo ha fatto domenica 17 dicembre, nel suo comizio di chiusura di Atreju, la festa di Fratelli d’Italia. Settanta minuti tirati di comizio in cui ha avuto cura di elencare una serie di “nemici”, in qualche caso senza neppure nominarli, da Giuseppe Conte a Chiara Ferragni, da Roberto Saviano a Elly Schlein, che sarà probabilmente il bersaglio preferito della campagna elettorale per le europee. Se a Bruxelles continua a lavorare con prudenza, evitando di impegnarsi, come vorrebbe il suo alleato-rivale Matteo Salvini, in un’alleanza europea con tutte le destre più estreme (che potrebbe non avere i numeri per eleggere la nuova Commissione e rischierebbe di isolarla nei confronti dei partner), a Roma la premier gioca la carta della leadership urlata, guadagnandosi l’accusa, da parte di Elly Schlein, di essere una premier adatta più all’Ungheria che all’Italia.
Ma è davvero così? Se Meloni riprende l’abito della destra più energica – quella che su gran parte della stampa internazionale è definita far right, destra estrema – rischia davvero di rimanere isolata e bollata come leader “non democratica” o “non europea”? Molto dipenderà dai risultati reali delle prossime elezioni per il rinnovo del parlamento di Strasburgo. È più che legittimo, tuttavia, coltivare un certo grado di scetticismo su questo punto. Proprio in questi giorni, Hans Kundnani, autorevole analista associato del Royal Institute of International Affairs (think tank britannico altrimenti noto come Chatham House), ha seminato più di un dubbio in un articolo pubblicato dal “New York Times” e intitolato enfaticamente L’Europa potrebbe dirigersi verso qualcosa di impensabile. “Nel decennio passato, la politica in Europa è stata largamente interpretata come uno scontro fra liberalismo e illiberalismo”, ha ricordato lo studioso, ma oggi “viene fuori che il centrodestra non ha un problema con l’estrema destra. Ha un problema esclusivamente con chi sfida le istituzioni e le posizioni dell’Unione”.