Se leggiamo il Recovery Plan dobbiamo constatare che anch’esso, come il Cristo di Carlo Levi, si è fermato a Eboli, non considerando “bravi cristiani” le genti del Sud? È perlomeno il dubbio che è venuto agli amministratori locali meridionali. Secondo le stime del governo, circa ottantadue miliardi delle sei missioni del Pnrr (il 40% circa sul totale) saranno destinati per investimenti e opere al Sud. Ma secondo cinquecento sindaci del Mezzogiorno di Comuni grandi e piccoli, capitanati da quello di Napoli, Luigi De Magistris, queste risorse non sarebbero abbastanza e non rispetterebbero i criteri dell’Unione europea.
Al grido di “fermiamo l’ennesimo scippo!”, essi rivendicano il 68% dei fondi del Recovery. Contestano il criterio utilizzato dal governo basato sulla popolazione, senza tener conto di parametri richiesti dalla Unione europea come l’indice di disoccupazione e il divario del Pil. Il Sud verrebbe così privato ingiustamente di sessanta miliardi. Dentro gli ottantadue miliardi ce ne sarebbero poi ventuno presi dal Fondo di sviluppo e coesione che – è stato promesso – saranno restituiti quando arriveranno i fondi Ue.
Non solo. Il presidente della Campania, De Luca, oltre a essere scettico su questa restituzione, lamenta che non ci sia stato nessun riferimento al divario di spesa storica, l’attuale criterio che viene utilizzato per la ripartizione dei fondi tra gli enti territoriali e che penalizza quelli meridionali. Infatti, la quota di risorse ordinarie delle amministrazioni centrali destinate al Sud è pari mediamente al 28,9%, al di sotto della rispettiva quota di popolazione pari al 34,4%. In termini monetari, ogni cittadino del Centro-Nord si è avvalso mediamente, a prezzi costanti 2010, di circa 15.408 euro pro capite rispetto agli 11.948 euro del cittadino del Mezzogiorno. In dieci anni la spesa per gli investimenti ordinari della pubblica amministrazione nel Mezzogiorno è più che dimezzata passando da ventuno miliardi del 2008 ai 10,3 miliardi del 2018.
Questo divario in termini di spesa è confermato dalla disparità in termini di dotazioni effettive e di servizi offerti:i treni sono più vecchi, più lenti, la rete ad alta velocità costituisce solo il 5,6% della rete complessiva; il numero di presenze turistiche per abitante è (era) pari a 3,7 nel Mezzogiorno contro i 7,9 del Centro-Nord; l’irregolarità nella distribuzione dell’acqua riguarda ancora il 18,3% delle famiglie del Mezzogiorno a fronte del 4,9% del Centro-Nord; la dispersione delle risorse idriche è del 51% mentre quella media a livello nazionale è del 41; i Comuni del Mezzogiorno che dispongono di strutture per l’infanzia sono meno della metà di quelli del Centro-Nord; a Sud la banda rimane ultrastretta (altro che banda larga!) e si hanno molte difficoltà a connettersi con internet; trentaquattro ragazzi su cento delle regioni del Sud vivono in famiglie prive di dispositivi informatici e con titoli di studio più bassi, per non parlare della situazione delle strutture sanitarie.
Non è un caso che i giovani fuggono: tra il 2002 e il 2017 il Mezzogiorno ha perso oltre 612.000 giovani e 240.000 laureati.
Ma secondo la ministra per il Sud, Mara Carfagna, la cifra di 82 miliardi da spendere in 5 anni è “enorme, superiore a quella che erogò la Cassa del Mezzogiorno, somma che si aggiunge ai fondi Ue e al Fondo di sviluppo e coesione […]. Questa cifra rende possibile se spesa bene di far crescere nei prossimi cinque anni il Pil del Sud oltre il 22% contro una media nazionale del 15”. Per la verità, nei suoi cinquantotto anni di vita, la Cassa per il Mezzogiorno spese in totale ben 342 miliardi di euro, e in particolare tra il 1950 e il 1973 seppe restringere le distanze in termini di Pil pro capite con il Nord.
Il “secondo motore”
Il primo ministro nel corso del dibattito parlamentare sul Pnrr non poteva sfuggire al punto. E infatti una larga parte della sua replica al Senato è stata spesa per dimostrare che le risorse per il Sud ci sono e sono tante. Ha ricordato che agli ottantadue miliardi si aggiungono quelli dello strumento React-EU, appositamente attivato dall’Unione europea per contrastare gli effetti della crisi pandemica. Su un totale di 13,5 miliardi di euro destinati all’Italia, al Mezzogiorno andranno 8,5 miliardi di euro, destinati in larga parte a realizzare iniziative nel settore delle politiche del lavoro e dell’inclusione sociale, della salute e della ricerca. Le aree del Mezzogiorno potranno inoltre beneficiare delle ingenti risorse stanziate dal bilancio dell’Unione europea per i fondi strutturali 2021-2027 e i fondi per lo sviluppo rurale e la pesca: unitamente alle corrispondenti risorse del cofinanziamento a carico del bilancio statale, al Mezzogiorno andranno circa sessanta miliardi di euro sugli ottantacinque complessivi.
Le aree del Mezzogiorno potranno inoltre beneficiare per la realizzazione dell’alta velocità, la linea ferroviaria Salerno-Reggio Calabria, di ulteriori risorse, pari a 9,4 miliardi di euro, come risorse provenienti dal Fondo complementare. Ulteriori finanziamenti provengono dal Fondo per lo sviluppo e la coesione, con questa ripartizione: nella programmazione per il 2014-2020 sono previsti ventiquattro miliardi di euro per il Sud; nella programmazione per il 2021-2027 sono previsti trentacinque miliardi; c’è poi la ricostituzione delle risorse per il 2021-2027 utilizzate nel Pnrr, per 12,4 miliardi di euro al Sud, che saranno incluse nel prossimo decreto-legge sul Fondo complementare.
Tirando le somme, per il prossimo decennio ci sarebbe un flusso di risorse per interventi straordinari pari a 240 miliardi, sempre che non si riduca la quota di investimenti ordinari, com’è accaduto nei decenni scorsi. Il rischio, poi, è che per potere spendere rapidamente entro il 2026 si avvantaggi chi può partire subito, chi ha i progetti pronti, la cosiddetta cantierabilità come criterio di selezione. Ma il dato più importante della sua replica, almeno a parole, è il riconoscimento che “il potenziale del Sud in termini di sviluppo, competitività e occupazione è tanto ampio quanto è grande il suo divario dal resto del Paese. Non è una questione di campanili: se cresce il Sud, cresce l’Italia”.
Dunque il Mezzogiorno come “secondo motore” dello sviluppo civile ed economico del nostro Paese secondo l’espressione del presidente Svimez, Aldo Giannola. Il progressivo disinvestimento al Sud ha, infatti, indebolito anche il Nord che indietreggia in Europa per il mancato apporto dei reciproci effetti benefici dell’integrazione economica con il Mezzogiorno. Bisogna riaccendere il “motore interno” dello sviluppo nazionale, riattivare l’interdipendenza tra Nord e Sud, considerando che ogni euro investito in opere pubbliche al Sud, secondo la Svimez, attiva 0,4 euro di domanda di beni e servizi nel Centro-Nord. Mentre secondo la Banca d’Italia, un incremento degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno pari all’1% del suo Pil per un decennio, avrebbe effetti espansivi significativi per l’intera economia italiana.
Ma il riequilibrio non si può ottenere solo con il Recovery Plan. La vera partita si gioca sulla spesa ordinaria a partire da quella corrente. E qui subentra il problema delle proposte sull’autonomia differenziata e sulla necessità di fissare i “livelli essenziali delle prestazioni” (Lep). Fermo restando che passare dai Lep “virtuali” a quelli “effettivi” – come sottolineato da Aldo Giannola – richiede l’allocazione di ingenti risorse inibita dai ben noti vincoli di bilancio, a meno di non volere togliere agli uni per dare agli altri. Misura politicamente di difficile attuazione se non impossibile.
“Le risorse saranno sempre poche, se uno non le usa”
Una battuta con cui Draghi ha voluto ricordare le storiche difficoltà del Sud di assorbimento dei fondi pubblici, nel sapere progettare e spendere. Viene citato da diversi commentatori il dato della spesa effettiva al 31 dicembre 2020 relativa alle risorse del Fondo di coesione, pari per il ciclo 2014-2020 al solo 5,1% del totale. Anche se in realtà il Mezzogiorno i soldi li ha sempre spesi tutti, ma quasi mai per i progetti presentati, perlopiù per la spesa ordinaria. Il ritardo nella spesa si traduce a volte, paradossalmente, in un premio per i cattivi amministratori che utilizzano queste risorse per favorire clientele varie (piccoli prestiti a interesse zero a operatori economici mai restituiti, oppure bonus per i pensionati, come fece, per esempio, la Regione Campania nel 2015 e nel 2020).
In ogni caso il problema esiste. Le amministrazioni territoriali sono carenti di figure professionali adeguate a gestire questi progetti. Al riguardo Mara Carfagna ha ricordato il concorso rapido per l’assunzione di 2.800 di queste professionalità per gli enti locali. Ma questa misura non può certo da sola colmare il deficit di qualità istituzionale, al punto che autorevoli studiosi hanno proposto una super regia centrale a supporto di Regioni e Comuni, per chi è a corto di progetti, facente capo alla Presidenza del Consiglio.
Manca, per così dire, “dal basso” la capacità degli amministratori meridionali di fare rete come hanno saputo fare le otto confindustrie del Sud istituendo una conferenza permanente dei presidenti meridionali. Manca loro una visione d’insieme del Mezzogiorno come porta d’Europa, che potrebbe svolgere un ruolo decisivo nel Mediterraneo qualora si riuscisse a potenziare il sistema portuale e le infrastrutture retrostanti.
Nei partiti il giudizio sul Pnrr, per quanto concerne il Sud, è a dir poco variegato, spesso all’interno dello stesso raggruppamento. Anch’essi sono parte del problema, considerando che i problemi del Mezzogiorno non sono rappresentati solo dalle carenze già citate ma anche dalla corruzione, dal lavoro nero, dalla collusione di politici con le organizzazioni criminali. Sono le conseguenze delle modalità oggi vigenti per acquisire il consenso dove la gestione clientelare della spesa pubblica ha sostituito, nel cementare il blocco borghese, il latifondo dei decenni passati. Solo nuove opportunità di lavoro di qualità legate alle nuove tecnologie, alla transizione ecologica e ad adeguati servizi pubblici, potranno spezzare questo circolo vizioso.