La destra ha una maledetta fretta di portare a casa le sue controriforme. Vuole disegnare una nuova fisionomia dell’Italia. Stando ai propositi e ai lavori parlamentari: al Senato procedono di gran lena le audizioni sul disegno di legge governativo, che introduce il premierato con elezione popolare diretta. Un mostro giuridico – il prescelto o la prescelta sarebbe una sorta di nuovo duce a cui nessun altro potere potrebbe contrapporsi – e un baratro politico: fine della Repubblica parlamentare e della dialettica democratica.
Gli ex presidenti della Consulta, che sono stati auditi nei giorni scorsi dalla commissione Affari costituzionali del Senato, hanno definito la proposta “quasi eversiva per alcuni aspetti ed estremamente debole per altri” (Ugo De Siervo); “in nessun Paese del globo esiste un modello simile, e questo qualcosa vorrà dire” (Gustavo Zagrebelsky); “lesivo delle prerogative del capo dello Stato, storicamente organo super-partes con funzione di moderazione e stimolo” (Marta Cartabia); “con il premio che garantisce il 55% dei seggi a una sola forza politica, la maggioranza non sarebbe frutto della volontà popolare ma della macchina calcolatrice, e potrebbe eleggersi capo dello Stato, cinque giudici costituzionali e quelli del Csm di competenza del parlamento” (Gaetano Silvestri). E ancora: “Qui è in gioco la concezione stessa della democrazia, bisogna essere cauti” (Zagrebelsky).
Si tratta di espressioni di alte personalità chiamate dalle opposizioni a dire la loro, ma la contro-narrazione è lontana dal volersi inoltrare in quei territori: dopo averla definita la “madre di tutte le riforme”, ora Giorgia Meloni ha immesso nel vocabolario dei suoi una nuova frase: è la “più potente misura economica che possiamo regalare alla nazione”, ha detto. La ministra delle Riforme, Elisabetta Casellati, l’ha seguita a ruota per spiegare che “la stabilità, che è uno degli obiettivi della riforma costituzionale, è una straordinaria leva economica”. Citando uno studio della Bocconi, ha poi dato i numeri: “l’instabilità dei governi, ha prodotto un costo per i cittadini di circa 265 miliardi in dieci anni”. Eccoci dunque a risolvere tutto con il premierato, il cui punto intoccabile è l’elezione diretta, perché può essere “un modo per avvicinare i cittadini al voto, responsabilizzare i cittadini sulla scelta del governo”.
Già da queste poche righe si può notare il metodo della destra: usare elaborazioni di think tanks, orientati a dimostrare qualche particolare assunto (per esempio la bontà del decisionismo), e l’inconsistenza di affermazioni che sembrano coerenti ma non lo sono affatto: se fosse vero quello che dice Casellati, gli Stati Uniti eleggerebbero il loro presidente con la partecipazione reale della popolazione, mentre quel sistema ha ucciso proprio la partecipazione. Sul fronte del premierato si prosegue, dunque, con altre audizioni (oggi, 30 novembre, Nicolò Zanon già vicepresidente della Corte costituzionale e i professori Oreste Pollicino e Fabio Cintioli), con l’intenzione di passare poi a un rapido esame del testo e alla votazione per la discussione in aula. Le opposizioni tengono la loro linea di contrasto al premierato: ma è presto per capire se ci saranno crepe da parte dei renziani – assai probabili – o di frange del Pd.
Intanto la foga contro-riformatrice produce altri mostri: sempre la commissione Affari costituzionali del Senato (è lì che Giorgia si sente forte, dunque la consegna è di evitare la prima lettura alla Camera) ha licenziato la proposta Calderoli per l’autonomia differenziata. In pratica, è la legge che prevede la devoluzione delle competenze dallo Stato alle Regioni: già introdotta con la modifica del Titolo V della Carta nel 2001 dal centrosinistra, che pensava furbescamente di frenare (o fregare) la Lega, portando a casa, invece, un mezzo sfascio dello Stato; ora ci ha pensato Roberto Calderoli a riscrivere e allargare le competenze, stabilendo i diritti di cui ogni cittadino deve beneficiare (i famosi Lep, Livelli essenziali delle prestazioni), ma senza prevedere neanche un euro per finanziarli: la minaccia all’unità dello Stato e ai diritti sociali è concreta. L’autonomia differenziata, com’è noto, è il contraltare della Lega al presidenzialismo di Fratelli d’Italia: due concezioni opposte dello Stato, che devono per forza trovare una quadra secondo i dettami meloniani.
Qui si possono intravedere problemi di fluidità nella maggioranza: nessuno vuole arrivare dopo. Gli uni non vogliono concedere il presidente forte senza la garanzia dei nuovi micro-Stati regionali; gli altri non vogliono questa frammentazione senza il loro duce. Infine, e non ultimo, non può mancare il contributo contro-riformatore di Forza Italia: fedeli alla linea di sempre, i berluscones fanno sapere che niente si farà se non contemporaneamente alla riforma della giustizia, che per loro significa: mettere un bavaglio a quei maledetti magistrati. “Le riforme devono andare di pari passo. Per noi di Forza Italia la riforma della giustizia rappresenta la priorità. Gli altri avanzeranno le loro, c’è il premierato, c’è l’autonomia” (Alessandro Cattaneo, di Forza Italia).
Il ministro della Giustizia Nordio è lì a disposizione degli eventi, pronto ad avviare la proposta di separazione delle carriere (anticamera del controllo politico dei magistrati). Questo è il quadro: di nuovo c’è che, nelle ultime ore, dopo la nota intervista del ministro della Difesa Crosetto sui presunti complotti della magistratura contro il governo, si è capito un po’ meglio che l’indipendenza dei magistrati è sgradita a tutti i settori della destra. Ma anche che la foga è tale che potrebbe trovare principi di autodissoluzione all’interno.