“La storia è un incubo da cui cerco di destarmi”. A venire alla mente è la famosa citazione da Joyce, quando si è raggiunti dalla notizia della retata che in Francia ha portato in gattabuia sette ex terroristi italiani delle Brigate rosse e di gruppi minori della cosiddetta lotta armata. Ce n’eravamo quasi dimenticati, ci sembrava di avere dovuto scontare già abbastanza – come sinistra, come progressisti in genere – la scelleratezza di alcuni. Se infatti nobili parole come “comunismo” e “socialismo” sono divenute oggi quasi impronunciabili in Italia, ciò dipende certamente dalla fine ingloriosa dell’azzardato colpo di mano di una minoranza – quello che si ebbe in Russia, nell’ottobre 1917, all’interno però di un processo rivoluzionario –, ma anche da quegli anni nefasti più vicini a noi, in cui un’altra minoranza – ancor più piccola della precedente e senza che vi fosse alcuna rivoluzione in corso –, abbacinata dalla possibilità di un colpo di Stato (bombe stragiste, abortita messinscena di un golpe con Junio Valerio Borghese, eccetera), cadde nella trappola del potere democristiano di allora: stabilizzare al centro la situazione politica scossa da una lunga stagione di movimenti operai e studenteschi, provocando a sinistra un estremismo uguale e contrario a quello neofascista.
Ma quanto più ci si addentra a ritroso nei meandri dell’incubo italiano, tanto più si scopre che la “trama nera” fu anche in larga misura “trama rossa”: il caso Moro insegna (c’è su questo da consultare ormai un’intera biblioteca, fornita da storici e giornalisti, tra cui la nostra Stefania Limiti). Rivisitare quella tragedia di quaranta o cinquant’anni fa – anche mediante nuovi processi – ha un senso quando si tratti di fare luce su aspetti che all’epoca si potevano soltanto oscuramente intuire; ne ha molto meno quando si tratti di dare esecuzione a sentenze contro coloro che oggi non appaiono più né terroristi né ex terroristi, ma poveri diavoli finiti in una trappola.
Di che cosa potrebbe dirsi soddisfatto il figlio di quel macellaio veneto che, nel 1979, vide cadere il padre sotto i colpi d’arma da fuoco di un militante dei sedicenti Proletari armati per il comunismo (i Pac dello stesso famigerato Cesare Battisti), se quel disgraziato fosse estradato in Italia per scontare la sua condanna? Tra l’altro – non lo si sottolinea abbastanza – quello che adesso si aprirà è l’ennesimo contenzioso legale perché, per coloro che sono stati arrestati, non è affatto sicuro l’esito verso un’estradizione in Italia. La giustizia francese avrà, caso per caso, l’ultima parola. Paradossale a dirsi, qualcuno di questi arrestati lo fu già in passato, e non fu affatto estradato. È il caso di Marina Petrella, condannata all’ergastolo, che più di dieci anni fa, messa in galera ai tempi di Sarkozy, fu in seguito scarcerata per le sue condizioni di salute, senza che peraltro le fosse riconosciuto uno status di “rifugiata politica”. La “dottrina Mitterrand” è invocata o tradita a seconda delle circostanze, o a seconda dei ghiribizzi politici del momento: è vero che chi si fosse macchiato di reati di sangue non avrebbe dovuto giovarsene, ma è anche vero che spesso se n’è giovato per qualche decina d’anni. Allora come la mettiamo? Di tanto in tanto a qualche presidente della Repubblica francese – ieri Sarkozy, oggi Macron – salta il ticchio di dare seguito ai desiderata intermittenti dei governi italiani in carica, i quali o se ne infischiano o fanno la faccia feroce.
È toccato, ultima in ordine di tempo, a Marta Cartabia, ministro della Giustizia del governo Draghi, farsi carico della questione, perché per alcuni degli espatriati in Francia – non per quelli condannati all’ergastolo – sembra che stia per scattare la prescrizione della pena. Non sarebbe stato più confacente a un pure invocato spirito di riconciliazione aspettare che questi termini scattassero per quelli che hanno ricevuto condanne minori, così da archiviare definitivamente la faccenda se non altro per alcuni di loro?
Stiamo parlando di una “protezione di fatto” ricevuta dalla Francia nel corso di lunghi anni, che ha finito col costituire, però, una sorta di tortura psicologica per delle persone che hanno vissuto per decenni la precarissima situazione di poter essere arrestati da un momento all’altro. Andrebbe semmai stigmatizzato, a posteriori, l’atteggiamento dei governanti dell’epoca, che non fecero nulla per riprendere quanti erano fuggiti in Francia, spinti da un calcolo politico di corto respiro. Il riferimento è a Craxi e ai suoi sodali, che speravano di lucrare qualcosa in termini elettorali strizzando l’occhio alla sinistra extraparlamentare, mentre mettevano su uno dei sistemi di potere più corrotti che la storia d’Italia abbia mai conosciuto.
Un caso fra tutti va segnalato, quello del quasi ottantenne Giorgio Pietrostefani, condannato non propriamente “per terrorismo” ma per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. In uno dei tanti frangenti del complicato processo sorto dalle dichiarazioni del pentito Leonardo Marino, Pietrostefani si allontanò dall’Italia, mentre i coimputati Sofri e Bompressi restarono a difendersi. Si sa poi com’è andata: Sofri ha fatto l’ “eroe” in carcere riguadagnandosi una certa verginità, mentre Bompressi ha ricevuto la grazia dal presidente della Repubblica. Per chi come noi ha sempre pensato che i dirigenti di Lotta continua fossero davvero responsabili della morte di Calabresi nel 1972 (tipica scelta scellerata, quella di condurre a termine una generosa campagna politica intorno all’omicidio preterintenzionale dell’anarchico Pino Pinelli con l’assassinio premeditato di colui che molto probabilmente ne fu l’artefice), accanirsi contro Pietrostefani, che dovrebbe scontare ancora quattordici anni, ha il sapore della vendetta e non della giustizia a quasi cinquant’anni dai fatti.