C’è qualche differenza tra il Recovery Plan di Conte e quello di Draghi? Le opinioni sono le più diverse. Chi, come gli esponenti dei 5 Stelle e l’ex ministro dell’economia, Roberto Gualtieri, assicura che quello di Draghi è in piena sintonia con quello del governo precedente e chi, come Renzi, plaude alla svolta. Ci si accapiglia tra la Lega e il Pd su chi abbia inciso di più con le proprie priorità nella stesura del Piano nazionale di ripresa e resilienza; ma sinceramente, alla fine della fiera, dobbiamo dire che la vera differenza tra i due piani consiste nella persona stessa di Draghi.
Certo, alcune somme sono diverse e diversamente ripartite, il punto della gestione del Pnrr è in qualche modo risolto – Confindustria è rassicurata –, ma lo snodo decisivo era, ed è, rappresentato dalle riforme che l’Unione europea ci chiede, che non erano adeguatamente delineate nel primo Piano ma neanche nel secondo. Una vaghezza che preoccupa i nostri interlocutori europei. Insomma, il Piano è condizionato sì ai programmi di spesa ma altrettanto, se non di più, alle riforme richieste.
La telefonata tra von der Leyen e Draghi era – così fanno sapere dal suo entourage– incentrata sulle garanzie di attuazione delle riforme, da quella della giustizia a quella della concorrenza, dalla pubblica amministrazione alle semplificazioni e alla riforma fiscale. Alla fine la battuta di Draghi, rivolta alla presidente della Commissione, “abbiate rispetto per l’Italia” (cioè per la mia persona) riassume bene il punto.
Ora, Draghi come “garante delle riforme” porrà un serio problema a tutta la classe politica italiana quando nel febbraio del 2022 si dovrà eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Dal grado di attuazione di queste riforme, si capirà dove poter collocare Draghi tra Palazzo Chigi e il Quirinale.
Le critiche a Conte e la vaghezza delle riforme
Ovviamente i problemi sorgeranno ben prima, quando si dovrà decidere sui criteri della riforma fiscale o di quella della giustizia, solo per citare due terreni sui quali le posizioni tra le forze della composita maggioranza governativa non sono divergenti, bensì agli antipodi. E si tratterà di una vera e propria corsa a ostacoli, anzi una maratona con ben undici leggi da approvare in meno di un anno.
Da parte confindustriale le critiche erano molteplici, quantitative e qualitative. Per esempio, per quanto riguarda la transizione ecologica, si denunciava l’eccessivo finanziamento (la metà delle risorse) per la riqualificazione degli edifici (il superbonus) a detrimento delle risorse per la transizione ecologica. L’altra critica degli imprenditori lamentava la mancanza di una visione d’insieme e la miriade di sussidi e di microinterventi che sacrificavano le infrastrutture e gli investimenti sulle reti. Troppi soldi per le rinnovabili (cinque miliardi), per le aree interne (un miliardo) e per le piste ciclabili (!). L’eccessiva dispersione dei sussidi non consentiva di finanziare adeguatamente – a loro dire – le società più dinamiche, la transizione digitale, che nella loro concezione dovrebbe sostituire Industria 4.0 come programma di sostegno economico delle imprese.
Per l’Unione europea, il Piano Conte era troppo vago sulle misure per favorire la concorrenza. La Commissione rilevava come le barriere esistenti per l’accesso ai mercati, in particolare nel settore del commercio al dettaglio e dei servizi alle imprese, penalizzassero la concorrenza. L’unica legge nazionale (che secondo una disposizione del 2009 doveva essere annuale) risale infatti al 2017.
Per quanto concerne la pubblica amministrazione, nel Piano Draghi si riconosce che non è soltanto un problema di semplificazione. Si afferma che si possono semplificare quanto si vuole le procedure, ma una pubblica amministrazione che ha una quantità di dipendenti molto minore di quella della stragrande maggioranza dei Paesi europei, e che hanno un’età media molto più elevata (sopra i cinquant’anni), non riuscirà mai a raggiungere gli obiettivi che le sono affidati. In ogni caso si prevede una struttura apposita presso la Presidenza del Consiglio per attuare la semplificazione normativa, semplificazione che richiede un impegno sistematico.
Un’altra riforma delicata concerne la semplificazione della normativa ambientale, a partire da quella della Valutazione di impatto ambientale, il cosiddetto Via. Il Piano propone di sottoporre gli investimenti e le opere previste a una commissione statale per velocizzare gli adempimenti.
La ripartizione delle risorse
Nel marzo 2021, a causa dei dati del Pil 2019 che hanno penalizzato l’Italia, i fondi a disposizione sono diminuiti di cinque miliardi, passando da 196,5 a 191,5 miliardi. Può essere interessante vedere la ripartizione percentuale delle somme tra le sei missioni previste dai due Pnrr.
Suddivisione delle risorse del Pnrr Conte (incluso React EU) (gennaio 2021- miliardi euro) | Suddivisione delle risorse del Pnrr Draghi (incluso React EU) (26 aprile 2021 – miliardi euro) | Differenza in % | ||
Totale 209,5 | 100 % | Totale 204,5 | 100% | |
Digitalizzazione 45,6 | 21,6 % | Digitalizzazione 41,5 | 20,3 % | -1,3 % |
Transizione ecologica 67,5 | 32 % | Transizione ecologica 60,6 | 29,6 % | -2,4 % |
Infrastrutture 32 | 15,2 % | Infrastrutture 25,1 | 12,3 % | -2,9 % |
Istruzione e ricerca 26,7 | 12,6 % | Istruzione e ricerca 32,8 | 16 % | +3,4 % |
Inclusione e coesione 21,3 | 10 % | Inclusione e coesione 27,1 | 13,2 % | + 3,2 % |
Salute 18 | 8,5 % | Salute 17,3 | 8,4 % | -0,1 % |
Si nota un deciso incremento, anche in assoluto, per la missione “Istruzione e ricerca”, che passa da ventisette a quasi trentatré miliardi, con un miliardo in più per la ricerca. Insomma, come ha scritto un esimio professore: “più laureati e meno piste ciclabili”. Queste ultime sono in effetti passate da mille a 570 chilometri, quasi dimezzate.
La spesa per infrastrutture diminuisce di circa sette miliardi in termini assoluti e del tre per cento in percentuale. La spesa sanitaria diminuisce di 0,7 miliardi. La componente “Transizione energetica” (all’interno della missione “Transizione ecologica”) viene aumentata da diciassette a quasi ventiquattro miliardi, mentre per “l’efficienza e riqualificazioni degli edifici” le risorse si riducono da trenta a poco più di quindici miliardi.
I conti devono anche prendere in considerazione i circa trentuno miliardi aggiuntivi del Fondo complementare alimentato da risorse nazionali (8,5 miliardi per la digitalizzazione; 9,3 per la transizione ecologica; sei per le infrastrutture; un miliardo per la ricerca applicata; 2,5 per l’inclusione e circa tre miliardi per la salute).
Nel Piano Conte gli interventi effettivamente aggiuntivi erano pari a 65,7 miliardi finanziati con i sussidi e con una quota pari a 40,7 miliardi di prestiti (totale: 104,4 miliardi), mentre gli altri 86,9 miliardi di prestiti sarebbero stati impiegati in sostituzione di risorse italiane per finanziare programmi e misure già inseriti nei programmi nazionali. Nel Piano Draghi, invece, gli interventi aggiuntivi sono finanziati per 68,9 miliardi con sovvenzioni e 53,5 miliardi con prestiti (totale: 122,4 miliardi, + 18). Infine, ci sono 69,1 miliardi per finanziare progetti già esistenti.
L’effetto espansivo sul Pil era previsto pari al 3% a regime nel 2026. Concentrando le risorse sugli investimenti pubblici, come sembra aver fatto Draghi, va attribuito a essi un moltiplicatore maggiore. E dunque lo stesso effetto sulla crescita del Pil è ora pari al 3,6%.
A chi il governo del Piano?
Utilizzando una di quelle parole inglesi, che tuttavia il Mario nazionale ha dichiarato di voler ripudiare, cosa si prevede per la governance? L’attuazione delle riforme, nonché la gestione delle risorse, sarà secondo l’attuale Pnrr in capo ai ministeri; ma il monitoraggio, il controllo e i contatti con la Commissione europea sono affidati al ministero dell’Economia e delle Finanze, mentre una “cabina di regia” si installerà presso la Presidenza del Consiglio. Non è dunque tramontata l’idea della cabina di regia, anche se adesso con un vestito più istituzionale. Casualmente – si fa per dire – i ministri più coinvolti sono proprio quelli “tecnici”, da Franco a Colao, da Giovannini a Cingolani. Rimane il problema degli enti territoriali, Regioni e Comuni, a cui vengono destinati poco meno di novanta miliardi, cioè il quaranta per cento del totale dei fondi. Ma serve – secondo Draghi – uno stretto coordinamento, che sarà affidato proprio alla Presidenza del Consiglio. Si prevede anche che vi siano gruppi di lavoro che possano “aiutare” l’azione degli enti locali, quando necessario. Questo è il governo del Piano, che a breve sarà definito da un apposito provvedimento normativo.