Che cosa sta succedendo al parlamento europeo e nel Consiglio Ue nei negoziati sull’ultima parte della legislazione del Green Deal? Stiamo assistendo all’emergere di quella nuova maggioranza di centrodestra che, soprattutto gli eurodeputati di Fratelli d’Italia e della Lega, con diversi esponenti del governo italiano, preconizzano che si stabilizzerà dopo le prossime elezioni europee di giugno 2024, al punto da essere determinante anche per il mandato della nuova Commissione? Questa nuova maggioranza critica verso il Green Deal – che comprende il Ppe, i conservatori dell’Ecr (il gruppo di Meloni e soci), l’estrema destra nazionalista di Identità e Democrazia (il gruppo di Salvini), e anche una buona parte dei liberali di Renew – ha avuto la meglio nel recente voto in plenaria a Bruxelles, il 9 novembre, sui nuovi limiti (lo standard Euro 7) alle emissioni dagli autoveicoli dei gas inquinanti diversi dallo CO2, come gli ossidi di azoto e il particolato. Con 329 voti contro 230 e 41 astensioni, è passato un testo che ridimensiona fortemente gli obiettivi originari della proposta della Commissione europea, come avevano già fatto i ministri dei Ventisette nella riunione del Consiglio Ue, il 25 settembre scorso.
Appare inevitabile, a questo punto, un compromesso al ribasso che confermerà, nell’adozione del testo finale, la marcia indietro sulla riduzione di gran parte delle emissioni inquinanti delle auto (i limiti di emissione resteranno gli stessi già previsti nell’attuale standard Euro 6), e che comunque rinvierà l’applicazione dei nuovi limiti dal 2025 al 2030 (e dal 2027 al 2031 per camion e autobus). “Questa maggioranza si è imposta ed è riuscita a imporre nuove scadenze temporali, è riuscita a imporre finalmente quel buonsenso che finora è mancato nella trattazione del Green Deal, nella capacità di combinare difesa dell’ambiente e produzione economica” – ha commentato compiaciuto, subito dopo il voto, l’eurodeputato di Fratelli d’Italia, Nicola Procaccini, co-presidente del gruppo dei conservatori europei.
Sempre il 9 novembre, a Bruxelles, in tarda serata, i negoziatori del parlamento europeo e del Consiglio Ue e della Commissione hanno raggiunto un accordo politico circa il regolamento sul “ripristino della natura”. Anche in questo caso, il testo approvato è stato fortemente indebolito rispetto alla proposta originale della Commissione, dopo i durissimi attacchi del mondo agricolo e delle forze di centrodestra (anche qui con l’appoggio di un terzo dei liberali di Renew), che hanno portato all’approvazione di una lunga serie di emendamenti, il 12 luglio scorso, durante il voto della plenaria a Strasburgo (vedi qui). L’accordo con il Consiglio Ue ha confermato gran parte di quegli emendamenti, che comportano molte deroghe, e soprattutto la sostituzione di diversi obiettivi obbligatori con obiettivi indicativi (con formule come gli Stati membri “dovranno mirare a”, invece che “dovranno”). Altri due testi legislativi del Green Deal, ormai vicini all’approvazione finale, sulla riduzione dei rifiuti da imballaggi (con la promozione del riuso e del riciclo e diversi divieti di utilizzare materiali “usa e getta”), e sulla riduzione delle emissioni inquinanti industriali (applicate anche in agricoltura, agli allevamenti intensivi) vedranno probabilmente i propri obiettivi diluiti e indeboliti nelle versioni finali dei testi che saranno adottate.
Tutto questo sembrerebbe confermare la tesi sulla nuova maggioranza di centrodestra in via di consolidamento e già avviata verso una trionfale conferma alle prossime elezioni europee. Ma ci sono almeno tre elementi che mettono in dubbio questa prospettiva. Innanzitutto, non è affatto scontato, ed è anzi improbabile, l’appoggio di almeno una parte dei liberali di Renew agli obiettivi delle destre in altri dossier legislativi diversi da quelli menzionati. Finora il gruppo Renew ha sempre fortemente sostenuto il Green Deal: uno dei suoi membri, il francese Pascal Canfin, è presidente della commissione Ambiente del parlamento europeo, e ha svolto un ruolo importante nel favorire la legislazione sulla transizione ecologica. In secondo luogo, nonostante le apparenze e il forte protagonismo del Ppe e del suo leader, il tedesco Manfred Weber, nella recente ondata revisionista contro il Green Deal, la strategia delle destre non coincide con quella dei popolari. Diversi esponenti del Ppe, nelle ultime settimane, hanno dichiarato di non pensare affatto a un cambio di maggioranza che escluda i socialisti (causando, tra l’altro, scandalizzati commenti da parte degli eurodeputati della Lega, Paolo Borchia e Anna Bonfrisco). La strategia di Weber, in effetti, è un’altra: confermare l’alleanza con socialisti e liberali come base per sostenere la prossima Commissione, ma allo stesso tempo ridare centralità al Ppe nella formazione delle maggioranze caso per caso, sui singoli dossier legislativi. Questo ruolo centrale, di king maker della legislazione, da molti anni appartiene piuttosto al gruppo Renew, soprattutto sui dossier ambientali. Weber, insomma, punta a mantenersi “le mani libere”, sebbene con un rapporto più stretto con i conservatori, e, se necessario, con l’appoggio anche dell’estrema destra, ma solo in alcuni casi specifici, e non con un’alleanza organica. L’obiettivo è quello di portare la prossima presidenza della Commissione a rendere conto in priorità e soprattutto al Ppe, invece che a una coalizione di gruppi come l’attuale “maggioranza Ursula”, che in certi casi (per esempio sulle auto a zero emissioni di CO2 dal 2035) ha marginalizzato gli obiettivi e le esigenze dei popolari.
Infine, le prospettive riguardo ai risultati delle elezioni di giugno, stando ai sondaggi, non sembrano confermare i progetti e le speranze delle destre sulla nuova maggioranza. Il rafforzamento previsto dei conservatori (soprattutto di Fratelli d’Italia) e dell’estrema destra (soprattutto francese) sarebbe in parte compensato dalle perdite del Ppe: per cui, fra tutti e tre i gruppi, ci sarebbe solo una decina di seggi in più, troppo pochi per una maggioranza stabile, anche considerando un eventuale improbabile sostegno di una parte di Renew. Sull’altro fronte, anche se si confermassero il forte indebolimento previsto per i verdi (che però, a questo punto, potrebbero accettare finalmente il Movimento 5 Stelle nel loro gruppo) e le perdite più contenute per Renew, socialisti e sinistra radicale, dovrebbero mantenere le proprie posizioni. Nessun cambiamento epocale, dunque.
D’altra parte, a eccezione degli annacquamenti di molti degli obiettivi per il ripristino della natura, di quelli per la riduzione delle emissioni inquinanti dalle auto e dagli allevamenti intensivi, e di quelli per la riduzione dei rifiuti da imballaggi, tutto il resto del Green Deal è ormai legge. A cominciare dall’obiettivo fondamentale della “neutralità climatica” al 2050, con tutto quello che comporta per i settori dell’energia, dell’industria e dei trasporti.
In prospettiva, il vero rischio, semmai, sarà quello della transizione giusta, ovvero di una ridistribuzione equa degli ingenti costi che la transizione energetica imporrà alla società e all’economia europee. Bisognerà, in particolare, intervenire con nuovi incentivi e finanziamenti pubblici, nazionali ed europei, per evitare di far ricadere sui consumatori, sul ceto medio sempre più impoverito e sulle piccole e medie imprese i costi dell’efficientamento energetico degli edifici (le “case green”) e quelli del nuovo sistema di scambio delle quote di emissione (Ets2), applicato ai carburanti e ai sistemi di riscaldamento a partire dal 2027. C’è il rischio, altrimenti, che vi sia una rivolta delle opinioni pubbliche molto più grave e generalizzata di quella che si è vista in Francia con il movimento dei gilets jaunes, nel 2018, contro i rincari dei carburanti.
Purtroppo, di questo rischio non sembrano essere consapevoli i ministri delle Finanze dei Ventisette, o almeno gran parte di essi, nel negoziato in corso per la riforma del Patto di stabilità, in cui stanno tornando ad affermarsi le esigenze della fallimentare politica di austerità e di penalizzazione degli investimenti, imposta ai bilanci pubblici negli anni della crisi dell’eurozona. E questo, proprio mentre andranno a esaurirsi, dal 2026, i benefici effetti dei finanziamenti europei del NextGenerationEU ai piani di ripresa nazionali post-Covid. Sarà sulla capacità di affrontare e minimizzare questo rischio che si misureranno la coerenza, l’efficacia e la strategia politica della nuova Commissione e della nuova legislatura europea dopo il 2024.