La mostra su Italo Calvino a Roma, alle Scuderie del Quirinale, con la sua capacità di spettacolarizzare la parola del grande autore, mette in evidenza come un letterato possa essere un impresario di figure e immagini che riempiono la nostra mente. E ci consegna oggi, nel tornante che ci sta conducendo a una vita basata sull’intelligenza artificiale, un lucidissimo profeta, che già negli anni Sessanta aveva intercettato i primi segnali di questa evoluzione psico-antropologica. Infatti, nell’indagare le tremule anticipazioni di un tempo futuro, il nostro scrittore comincia a ragionare sul processo di ridimensionamento del primato regale dell’autore, come si evince da testi in cui, come nelle Cosmicomiche, o ancora nelle conferenze del 1967 (con il titolo Cibernetica e fantasmi su cui torneremo), percepisce chiaramente come la relazione con i suoi lettori non sia a senso unico.
Nella mostra si insiste su una sua intervista, a proposito della trilogia (Barone rampante; Visconte dimezzato; Cavaliere inesistente), in cui spiega: “Ho voluto che fossero tre storie, come si dice, aperte, che innanzitutto stiano in piedi come storie, per la logica del succedersi delle loro immagini, ma che comincino la loro vita nell’imprevedibile gioco d’interrogazioni e di risposte suscitate nel lettore”. Non pare forzato leggere, in questa descrizione, forse la prima manifestazione nel contesto italiano – siamo in quegli anni Sessanta in cui Olivetti e la chimica fine di Giulio Natta illudevano il nostro Paese su un destino non solo industriale – dell’inizio del fenomeno che oggi chiamiamo interattività. Una forma del pensare collaborativo che anima ogni traccia di qualsiasi elaborazione umana, per quanto possa presentarsi come prodotta da eccelsi e prestigiosi autori. È l’interattività, con lo sciame di dati che la segue, che ormai genera e attiva flussi di relazioni, o conversazioni vere e proprie, che rendono permanentemente provvisoria ogni conclusione o affermazione.
È la boa attorno a cui ci troviamo a girare, traguardando il senso comune del nuovo secolo: mutano cioè, inevitabilmente, le gerarchie epistemologiche, spostando il potere di orientamento (di egemonia avrebbe detto il nostro Gramsci) dalle figure tradizionali degli intellettuali a sistemi tecnologicamente più pervasivi e profilanti. Una constatazione, questa, che divide la politica, e disorienta una sinistra ancora troppo legata a quel rinascimento autoriale in cui aveva attecchito.
E infatti, su questa constatazione – l’esaurirsi della spinta propulsiva dell’intellettuale –, si è abbattuta nei giorni scorsi la critica di Concita De Gregorio che, dando voce alla cultura di quella stagione passata, con un lungo articolo su “Repubblica” ha duramente stigmatizzato quella che già dal titolo è denunciata come “La democrazia dell’ignoranza”. La giornalista – usando un’aneddotica facile del malcostume di non poca televisione sempre a caccia di gladiatori delle idee per allestire risse e contese – mira a colpire in realtà quel processo intuito genialmente più di quarant’anni fa da Calvino: la condivisione sociale del primato autoriale.
Così De Gregorio, con un tono palesemente esasperato, fissa il cuore della discussione: “È un tema culturale, abbiate pazienza se appare marginale ma esiste anche questo: il ruolo degli intellettuali, la responsabilità di chi ha passato la vita a studiare le cose, una cosa, e magari può insegnarla a chi invece si è occupato, legittimamente, d’altro”. E aggiunge, perché non sia equivocabile: “Essere tutti eguali al grado zero della conoscenza non è difficile”. In sostanza, dice De Gregorio, ricordatevi che siete nani sulle spalle dei giganti, e i giganti siamo noi che sappiamo di lettere e far di conto. Un ragionamento che sembra fare il contropelo al senso comune, prendendo di petto nodi che di solito rimangono sotto pelle.
Ma quell’approccio così spregiativo dell’attuale contesto canalizza l’insofferenza di élite (e anche di un generico quanto esteso ceto medio) che si sentono da tempo pressate e assediate, contestate nel loro primato sociale ed economico, da un’onda di pretese e ambizioni di massa. Troppa gente parla, troppi pazienti chiedono ragione al proprio medico, troppi cittadini vogliono capire come decidono i propri rappresentanti, troppi lettori si impicciano di quanto scrivono gli autori. Aggiungiamo, in tempo di truci guerre, troppi irregolari hanno accesso a informazioni e tecnologie che minacciano gli Stati. Dalle milizie Wagner e Hezbollah, fino ai satelliti di Elon Musk e a quel pulviscolo di ucraini che, continuando a vivere digitalmente, si trovano a scambiare dati e informazioni vitali per ostacolare l’invasione russa.
Proprio la guerra ci mostra, con brutale evidenza, cosa sia realmente al centro della scena: uno spettacolare fenomeno di disintermediazione, che riduce le distanze fra élite e subalterni, spostando il potere di controllo dai centri intellettuali alle grandi piattaforme. Dagli Stati agli individui, dai professionisti ai dilettanti. Questo è il vero vulnus che viene denunciato, altro che lo stile dei talk-show, che è solo la degenerazione folcloristica di un ben più complesso fenomeno.
In discussione è il potere degli esperti, quella forma di governo aristocratico del mondo, basato su un intreccio fra saperi acquisiti come privilegio e il privilegio di potere acquisire quegli stessi saperi. Max Weber parlò di una teologica predisposizione al potere, in cui protestantesimo, censo e proprietà erano i veri sacerdoti del focolare di chi studiava. La colonna dorsale di quella società era il fordismo, la fabbrica, la piramide industriale: dal proprietario al manager, ai tecnici, fino ai capetti, per arrivare agli operai. Nel Novecento tutto era diventato fabbrica: la scuola, l’ospedale, la giustizia, la redazione. Tutto era top down: un capo, i mediatori, gli esecutori. E tutto era molto ordinato: i proprietari pagavano, gli intellettuali pensavano, l’intendenza seguiva, come diceva Napoleone. Poi Bauman ci ha informato che stiamo passando dalla trilogia “lavoro di massa – consumo di massa – mass media” a un’altra, del tutto scomposta e frammentata: “lavoro individuale – consumo personalizzato – media on demand”. E qui la maionese impazzisce. Si figuri, contessa, anche l’operaio vuole il figlio dottore – sarebbe il caso di cantare sulle note di Paolo Pietrangeli. Nessuno sta più al posto suo.
Già nel 1937, nella seconda edizione del suo celeberrimo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin aveva compreso che attraverso le prime rubriche di lettori che venivano pubblicate sui giornali si andava configurando un processo per cui “ogni lettore siederà accanto al direttore”. Esattamente quanto si sta configurando con il giornalismo diffuso. Ma è la scomposizione del lavoro che spinge sulla scena uno sciame di individui, circa cinque miliardi rispetto ai seicento milioni che erano parte dello spazio pubblico solo quarant’anni fa, che acquisiscono pratiche, esperienze, competenze, e coltivano ambizioni.
Vannuvar Bush, grande sociologo del Novecento, con un saggio epocale del 1945 – As We May Think (vedi qui) – annunciava il nuovo mondo: invece di proletarizzare il ceto medio, come si aspettava la sinistra, cetomedizziamo il proletariato, grazie al consumo di massa e alla progressiva smaterializzazione della produzione. E si smaterializza innanzitutto il campo socialista, cade il muro di Berlino, e la gente tende, come ricorda ancora Bauman, a non volere essere più eguale: “Il diritto a diventare eguali è rimpiazzato dal diritto a essere e rimanere differenti, senza che questo significhi vedersi negare la dignità e il rispetto”. Una svolta liberal-liberista, che viene però pagata dal sistema accorciando le distanze fra nani e giganti, dando voce a tutti con la rete. Un fenomeno molecolare, fondato su processi consistenti. Infatti, mentre gli intellettuali continuano a studiare, come rivendicato da De Gregorio, gli altri non si dedicano, seppure legittimamente, come concede la giornalista, ad altre cose, ma cominciano a impicciarsi proprio di quello di cui si occupano gli intellettuali.
I vertici si indeboliscono, le élite si arroccano. Ovviamente non siamo alla viglia del comunismo, quanto piuttosto a una nuova forma di capitalismo, quello della sorveglianza, in cui i nuovi giganti sono le piattaforme, i titolari dei dati e degli algoritmi. A valle di questi nuovi dominatori, si apre un gioco più serrato, in cui la subalternità al sistema di calcolo è retribuita con la percezione della propria rilevanza, o della propria differenza, appunto. È un nuovo terreno di conflitto, sul quale non si può rimpiangere quanto fosse verde la nostra valle, perché quella valle era un salottino di alcuni milioni di benestanti che potevano partecipare allo spazio pubblico, mentre oggi sono almeno cinque miliardi, come si è detto, quelli che pretendono di dire la loro.
Uno scenario gestibile solo da processi di automazione della condivisione dei saperi e dei linguaggi. Ancora Calvino, nelle conferenze su Cibernetica e fantasmi del 1967, annunciava che “l’uomo sta cominciando a capire come si smonta e rimonta la più complicata e imprevedibile di tutte le sue macchine: il linguaggio. Avremo la macchina capace di sostituire il poeta e lo scrittore, di ideare e comporre poesie e romanzi? Penso a una macchina scrivente che mette in gioco tutti gli elementi che consideriamo i più gelosi attributi della nostra intimità”. Ed è qui l’hic Rhodus hic salta: qui bisogna contendere le spalle ai giganti, accelerando il processo di automazione del lavoro, ma al tempo stesso rivendicandone il controllo e la condivisibilità. Come ricorda Toni Negri, nel suo Commonwealth (Rizzoli editore): “Ciò non significa che la produzione di beni materiali, come le automobili e l’acciaio, stiano sparendo e stiano diminuendo dal punto di vista quantitativo, ma che il loro valore dipende sempre di più, ed è sempre più subordinato, a beni e fattori immateriali”.
In questo gorgo, si disegnano ora le nuove gerarchie, non più sulla base di ciò che si sa, ma grazie a quello che si è capaci di utilizzare delle protesi digitali, che rendono mente e cuore funzioni aumentate nel loro funzionamento ordinario. Pertanto il vecchio circolo Pickwick del maestro, del farmacista, del notaio, che spiegavano al mondo come si campa grazie a Dio, è solo un ricordo di pochi; mentre il duro e ancora inedito scontro con i giganti del calcolo deve coinvolgere moltitudini di nani capaci di rimanere diversi trovando solidarietà e convergenze di interessi: proprio per non doversi togliere il cappello dinanzi ai nuovi padroni.