E se ci fossero gli americani dietro le stragi mafiose del 1992 e 1993? Se i mandanti degli attentati contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino fossero state le famiglie americane di Cosa nostra, in particolare la famiglia Gambino? Perché i magistrati palermitani avevano messo in crisi i traffici palermitani anche con le “sorelle” americane di Cosa nostra. E i Gambino erano finiti in carcere. Questa ipotesi non è più una suggestione di mentecatti o “depistatori”, un tentativo cioè di fiaccare la granitica tesi del grumo dei sopravvissuti antimafiosi duri e puri (magistrati, politici, giornalisti), che sostiene la presenza nelle stragi siciliane dei servizi segreti e dell’eversione nera.
C’è un passaggio nell’ordinanza del gup di Caltanissetta, Santi Bologna, che ha bocciato le conclusioni della procura nissena che aveva chiesto di archiviare le accuse del pentito (per loro un “depistatore”) Maurizio Avola, che aveva chiamato in causa per le stragi Falcone e Borsellino, anche la famiglia di Cosa nostra di Catania. Questo passaggio alza finalmente il sipario mostrando un palcoscenico animato da ombre di mafiosi americani e dei loro interlocutori istituzionali: “Si ritiene necessario procedere ad accertamenti volti a verificare il concorso di Cosa nostra americana (o ambienti alla stessa legata) nella strategia stragista del 1992. Al di là delle dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia (Salvatore Cancemi, Rosario Naimo e soprattutto Antonino Giuffrè) e altri dichiaranti (Paolo Bellini) richiamati nella memoria della difesa di Avola, è indubbio che si tratta di un approfondimento utile alle indagini nella misura in cui Avola ha fatto riferimento alla presenza del c.d. ‘straniero’ appartenente alla famiglia americana dei Gambino”. E Bologna, il giudice dell’udienza preliminare, continua: “Sotto questo profilo, al di là del vaglio di coerenza tra il narrato di Avola e le dichiarazioni degli altri collaboratori di giustizia di cui si è detto poc’anzi, può essere rilevante capire – anche attivando i mezzi di cooperazione giudiziaria in materia penale tra Italia e Usa – se in effetti, nel 1992, sia avvenuta una visita in Italia (e specificatamente in Sicilia) da parte del governatore di New York, Mario Cuomo, meglio, se la stessa era stata programmata e poi cancellata”.
Torniamo al passaggio su Avola, ricordato dal giudice nisseno. Di questa presenza nelle stragi Avola parlò ai magistrati di Caltanissetta il 5 maggio del 1994. In un interrogatorio del 18 novembre del 1994, quello “straniero” però si trasformò in “forestiero”. Forse perché era il periodo in cui si stava costruendo e consumando la tragedia del depistaggio Scarantino, e dunque la procura nissena decise che approfondire con Avola il capitolo dello “straniero” sarebbe stato fuori luogo. In sostanza, Avola ricordò la visita a Catania di questo mafioso della famiglia Gambino, venuto in Sicilia come istruttore, esperto di esplosivi e congegni elettronici, per insegnare a rendere efficaci i telecomandi modificati che dovevano servire per Capaci e via D’Amelio.
Se volessero davvero indagare senza i “pregiudizi” manifestati finora, i magistrati di Caltanissetta potrebbero anche scoprire in quale “supermercato” del terrorismo stragista fu reperito il T4, l’esplosivo militare utilizzato per la campagna stragista (dalla distruzione della villa catanese di Pippo Baudo alle stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993). Avola ha detto genericamente che armi ed esplosivo, nella santabarbara della mafia catanese, arrivavano dalla ex Jugoslavia. Ma, in quegli anni, Cosa nostra catanese gestiva gli appalti in tutta la provincia. E sul litorale che portava a Siracusa, a gestirli era il rappresentante della famiglia di Nitto Santapaola, Eugenio Galea. A Mineo c’erano le villette a schiera dei militari americani della base di Sigonella.
Il gup di Caltanissetta ha dato un sonoro ceffone alla procura concedendo altri sei mesi di indagini per esplorare tutte le richieste, gli episodi da approfondire indicati dalla difesa di Avola, l’avvocato Colonna. Scrive ancora il gup Bologna: “L’odierno procedimento (a prescindere dalle dichiarazioni di Maurizio Avola) può rivelarsi, con precipuo riferimento alla strage di via D’Amelio, uno spunto per ‘riflettere’ sulla possibilità di riempire – ove ancora possibile e prescindendo, auspicabilmente, dall’apporto di falsi collaboratori di giustizia – alcuni buchi neri nella ricostruzione della fase esecutiva dell’eccidio colmando la profonda limitazione di momenti di vera analisi tecnica
(sui reperti della strage) verificatasi nel corso delle prime indagini svolte in relazione a via D’Amelio”.
Finora, dunque, i catanesi non potevano far parte del commando stragista di via D’Amelio. Questo hanno sostenuto i magistrati di Caltanissetta, che hanno indagato sulle rivelazioni del killer Maurizio Avola, riportate nel libro di Michele Santoro Nient’altro che la verità, a senso unico. Due anni di indagini per dimostrare il “depistaggio” di Avola, non la conferma delle sue rivelazioni.
Quelle ombre senza volto che affollano via D’Amelio, in quella maledetta domenica sera del 18 luglio 1992, sono scomode per il “grumo” di irriducibili che ricostruiscono la storia dell’Italia repubblicana come attraversata da un unico filo nero che lega estremisti di destra, dalla strage di Bologna del 2 agosto 1980, alle stragi mafiose del 1993 a Roma, Firenze e Milano. La tesi che cancella la presenza catanese nelle stragi dei corleonesi è diventata il mantra dei magistrati di Caltanissetta, che, insieme a quelli di Reggio Calabria e Firenze, sono ipnotizzati dal cocktail di eversione nera mista ai corleonesi.