Abbiamo già avuto modo di assaggiare la tracotanza di leader “spazza-Costituzione”, sappiamo che non gli è andata bene. C’è da augurarsi che Meloni rientri in quella scia e che un referendum popolare stoppi il blitz. Infatti, anche con il voto dei sempre disponibili renziani, stavolta entusiasti, a occhio e croce tra diciotto mesi (quando finirà l’iter legislativo della revisione costituzionale) la destra non avrà i due terzi delle assemblee parlamentari, e dunque dovrà passare per il referendum (santi padri costituenti!). La sua proposta di revisione costituzionale è la tomba della Carta resistenziale ed espressione solo della pretesa del comando, sua e delle fragili leadership che invocano governabilità-stabilità, come fossero le chiavi del paradiso – ma inteso come il loro paradiso.
Qualcuno chiama la proposta meloniana premierato soft: non si capisce cosa ci sia di soft in un trauma costituzionale che, eleggendo a suffragio universale il presidente del Consiglio, sconvolge ogni altra carica, essendo la forza dell’investitura popolare superiore a ogni altra. Venerdì 3 novembre la riforma sarà sul tavolo del Consiglio dei ministri, per il via libera formale dopo quello dei leader di maggioranza riuniti a Palazzo Chigi con Giorgia Meloni: cinque articoli che, nelle intenzioni della maggioranza, dovrebbero entrare in vigore dalla prossima legislatura.
Si parte dall’elezione diretta del premier – archiviata quella del presidente della Repubblica, indicata nel programma elettorale di un anno fa, perché confusa e osteggiata da settori della stessa destra –, la riforma pretende di rivoluzionare l’elezione del capo del governo (scelto direttamente dai cittadini in un unico turno, per cinque anni) e di rafforzarne il ruolo: ma l’idea di irreggimentare la nuova figura con una norma antiribaltone già dovrebbe essere smussata nel testo finale di venerdì.
All’articolo 4 dell’attuale testo è scritto: “In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio, il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare eletto in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha chiesto la fiducia delle Camere”. Questa formulazione lascerebbe crescere una serpe dentro ogni maggioranza, visto che un altro leader potrebbe aspirare a “fare le scarpe” (termine non giuridico ma adatto al livello intellettuale di questa destra) al presidente eletto.
Ovviamente il testo prevede che la lista che sostiene il candidato presidente uscito vittorioso si beccherebbe il 55% dei seggi parlamentari. Quel che resterebbe dell’attuale capo dello Stato è presto detto: nulla. Perso il potere di nomina del premier (come prevede oggi l’articolo 92 della Costituzione), avrebbe quello suadente della controfirma e quello cortese di nominare i ministri, sempre su indicazione del capo del governo. Lo vedete voi un capo dello Stato che rifiuta di nominare il ministro di un presidente eletto a furore di popolo?
Le sgrammaticature sono evidenti, e lo erano già nel “lancio” promozionale di Meloni, “dobbiamo far nascere una Terza Repubblica”, ha detto: ma la seconda non è mai nata (come raccontiamo qui), se non per quella sciagura della sostituzione del sistema elettorale proporzionale con quello maggioritario. Evidente anche l’aria da armata Brancaleone di un gruppo dirigente che non sa governare ma pretende di avere tutti i poteri. In molti si augurano che la proposta muoia strada facendo: tutte le opposizioni parlamentari (Italia viva di fatto non lo è), anche se il Pd aveva indicato proprio il premierato come prima scelta durante gli incontri esplorativi con Casellati (ministro delle Riforme “ombra” – nel senso che fa solo ombra, contando ben poco), e poi il mondo extraparlamentare che si oppone alla democrazia decidente, cioè a un sistema in cui pochi decidono e tutti gli altri obbediscono. Premessa di molto foschi orizzonti.