In un messaggio inviato a una convention postdemocristiana organizzata da quel buffo personaggio che risponde al nome di Gianfranco Rotondi (uno di quei sottoprodotti della Dc del buon tempo andato, già fulminati da Silvio Berlusconi sulla via di Damasco), Giorgia Meloni ha ribadito la sua volontà di procedere a una riforma costituzionale. Che non sarà più, com’è noto, imperniata sul presidenzialismo ma sul “premierato forte”, cioè sulla elezione diretta del presidente del Consiglio. Se non è zuppa, però, è pan bagnato. La grande riforma che ha in mente Meloni consisterebbe in un rafforzamento dei poteri dell’esecutivo, attraverso l’introduzione di un meccanismo di tipo plebiscitario sulla scelta del capo del governo della “nazione”: e ciò, nelle intenzioni, sarebbe un perfezionamento della “democrazia dell’alternanza”. “Terzogiornale” è già intervenuto più volte sull’argomento (per esempio, qui e qui ), e si sa che qualsiasi modifica della Costituzione in questo senso è da noi fermamente rifiutata.
Tanto più che non si tratterebbe affatto di passare dalla Seconda alla Terza Repubblica, come sostiene Meloni: fino a prova contraria, infatti, ci troviamo ancora nella Prima, quella della Costituzione del 1948. La denominazione di Seconda Repubblica fu una forzatura giornalistica che ebbe successo al tempo di Tangentopoli. Cosa successe negli anni Novanta del Novecento? Molto semplicemente che sull’onda degli scandali circa i finanziamenti “irregolari” ai partiti (e riguardo alla vera e propria malversazione da parte di alcuni) si ebbe la dissoluzione del sistema politico precedente. In realtà, a parte gli aspetti legali della vicenda, erano venuti meno i presupposti sui quali si era retto il potere democristiano e quello dei suoi alleati: cioè l’esistenza del mondo sovietico, a cui, pur con tutta la sua specificità, il Partito comunista aveva continuato a riferirsi. Di qui un sistema bloccato nell’impossibilità di un’alternanza – imposta, però, da una fin troppo passiva partecipazione dell’Italia all’Alleanza atlantica.
E che cosa venne fuori da Tangentopoli? Nulla di positivo verso uno sviluppo o anche soltanto un maggiore dinamismo della democrazia. Il sistema politico fu di fatto nuovamente bloccato dall’irruzione sulla scena di un potere privato, edificato tuttavia con un sostegno da parte dei pubblici poteri (in particolare dalla presidenza del Consiglio all’epoca di Bettino Craxi), che faceva capo a Berlusconi. Attorno a questo signore, la premier attuale e i suoi amici trovarono la loro Mecca; e senza la formula politica di uno pseudo-centro alleato con l’estrema destra, al tempo stesso regionalistica e nazionalistica, non ci sarebbe oggi quello che, precisamente, è il destra-centro che altri continuano a chiamare il centrodestra.
A essere giusti nell’analisi e nel giudizio, lo stesso Prodi, con i suoi due governi di centrosinistra, fu un risultato della democrazia della non-alternanza: perché i due schieramenti che avrebbero dovuto fronteggiarsi, nella tradizione democratica europea, sarebbero stati quello sostanzialmente democratico-cristiano, più o meno moderato o conservatore, e quello progressista, liberal e socialdemocratico; mentre il sorgere del berlusconismo impedì nei fatti questo tipo di gioco politico, spingendo forze eterogenee a un’alleanza innaturale (di cui ancora oggi il Pd è il complicato succedaneo).
Nei prossimi mesi, una Meloni che ha già assaporato come il suo “non essere ricattabile” (frase che un anno fa rivolse all’indirizzo di Berlusconi in persona) sia come minimo vano, quando si tratta di avere a che fare con un potentato mass-mediatico che può distruggere chiunque (si ricordi anche il caso di Gianfranco Fini, in parte suo maestro politico, fatto a pezzi dai sicari berlusconiani), dovrà misurarsi con una riforma che, a suo dire, dovrebbe perfezionare l’alternanza, ma che in effetti sarebbe un po’ il suo definitivo affossamento. Da vivo già Berlusconi pensò di procedere nella stessa direzione: ci era quasi riuscito, se non fosse stato per il referendum costituzionale che, nel 2006, sonoramente bocciò la sua riforma. La ragione di tanto interesse per la scelta plebiscitaria nella direzione del governo, da parte di un magnate dei media, era del tutto palese: quando si ha in mano un potentato di quel tipo si possono influenzare profondamente le opzioni degli elettori, indirizzandole in un certo modo.
I migliori candidati a una presidenza del Consiglio, con elezione diretta, sarebbero oggi, molto più di Meloni, una sicura “berlusconide” di nome Marina e un sicuro “berlusconide” di nome Pier Silvio. I quali, e ci sono buone ragioni per crederlo, probabilmente gongolano ai “fuori onda” televisivi che mettono in difficoltà la premier. Perché – non lo dimentichi mai la presidente del Consiglio in carica –, nonostante Forza Italia sia al momento in ribasso, lei deve le sue fortune essenzialmente al berlusconismo.