Come abbiamo ampiamente spiegato nell’editoriale di Rino Genovese (vedi qui), la dissoluzione dell’Unione sovietica ha provocato tutta una serie di conflitti locali tra quelle repubbliche che una volta erano parte integrante dell’Urss. Un esempio è quello che vede fronteggiarsi, fin dal 1988, quindi già tre anni prima della dissoluzione del Paese più grande del mondo, da un lato l’Armenia, nazione a maggioranza cristiano-ortodossa, e, dall’altro, l’Azerbaigian, di religione prevalentemente musulmana, che si contendono la regione del Nagorno Karabakh, che Baku rivendica malgrado sia popolata prevalentemente da armeni.
La prima guerra terminò nel 1994, tre anni dopo la proclamata indipendenza della piccola repubblica caucasica, in realtà mai riconosciuta dalla comunità internazionale, compresa la stessa Armenia. Dopo oltre vent’anni di apparente pacificazione, tra il 2 aprile e il 5 aprile del 2016 vennero riaperte le ostilità. Malgrado la brevità del conflitto, il nome “guerra dei quattro giorni” apparve appropriato per le centinaia di morti che provocò. Russia e Stati Uniti garantirono un cessate il fuoco, che durò però pochi anni. Già il 27 settembre del 2020, Erevan e Baku ripresero a fronteggiarsi in quella che venne chiamata “seconda guerra nel Nagorno Karabakh”.
Questo nuovo dispiegamento di armi tra le forze azere e quelle armene conobbe la parola fine il 9 novembre 2020, grazie alla mediazione del presidente russo Vladimir Putin, che prevedeva uno scambio di prigionieri, la cessione da parte dell’Armenia di un pezzo di territorio che controllava da decenni e lo schieramento di circa duemila peacekeeper russi per monitorare la tregua. Presenza di fatto inutile, visto che lo scorso 19 settembre le ostilità tra i due Paesi sono riprese. Le forze di Baku hanno lanciato un’offensiva militare nel Nagorno Karabakh, con l’intenzione di impossessarsi dei principali centri della piccola enclave caucasica. “Di qui – informa “Romasette”, sito della diocesi di Roma – la denuncia del governo armeno, che ha subito parlato di offensiva su larga scala dell’Azerbaigian, chiedendo al Consiglio di sicurezza Onu di adottare misure per fermare le ostilità”. Anche i separatisti della regione hanno chiesto a Baku un cessate il fuoco e l’apertura di negoziati; ma la risposta della presidenza azera è stata vincolata alla deposizione delle armi da parte dei separatisti e alla dissoluzione del regime illegale, vale a dire della autoproclamata Repubblica del Nagorno Karabakh. “In tal caso – precisa “Romasette” – le autorità dell’Azerbaigian sono pronte a incontrare gli stessi separatisti nella città azera di Yevlakh”. Fatto sta che il 20 settembre scorso, dunque solo 24 ore dopo lo scoppio del nuovo conflitto che ha provocato trentasei morti, è arrivato un nuovo cessate il fuoco con un relativo avvio di trattative. Il tutto è avvenuto con la mediazione del comando del contingente russo di mantenimento della pace.
Intanto, come in tutti i conflitti, sono i civili a pagare il prezzo della guerra, che colpisce in particolare un popolo che fu oggetto di un genocidio da parte della Turchia. Secondo quanto informa l’agenzia “Interfax”, “il governo armeno denuncia l’arrivo di 85mila profughi armeni arrivati in Armenia dal Nagorno Karabakh”. Per la precisione “attualmente – dice Nazeli Baghdasaryan, portavoce del premier armeno – si tratta di 84.770 sfollati”. Ma potrebbero essere anche 120mila. Ora, dopo la già citata tregua, è l’Azerbaigian ad avere ottenuto il controllo della regione separatista.
Come da prassi, la domanda che sorge spontanea è che cosa intende fare l’Europa in un’area geografica di stretto interesse del vecchio continente. Ferma restando l’importanza del ruolo russo nel Caucaso, Bruxelles deve prendere in considerazione l’ipotesi delle sanzioni nei confronti degli azeri che hanno occupato illegalmente il Nagorno. “Limitarsi a condannare l’attacco azero solo a livello retorico rischia di sortire ben pochi effetti – dice Eleonora Tafuro Ambrosetti ricercatrice dell’Ispi (Istituto studi politica internazionale) – e anche se l’efficacia delle sanzioni resta un tema controverso e tutt’altro che semplice, l’Ue deve mandare a Baku un segnale univoco della necessità di non ricorrere all’uso della forza e le sanzioni restano una delle armi più potenti nell’arsenale europeo”. Compito complicato, perché si deve costringere Baku a fare una parziale retromarcia per trasformare in una pace quella che, allo stato attuale delle cose, appare come una resa di Erevan.