I ragazzi e le ragazze ci fanno paura. Ci fanno paura la loro imprevedibilità, la loro fame di esperienze forti, le loro domande, il loro disagio. Ci fanno paura soprattutto quando esercitano violenza come forma di espressione. Narrata o reale, nelle scuole e per le strade, c’è un oggettivo aumento della violenza: al di là delle statistiche, è innegabile che la violenza giovanile abbia assunto, negli ultimi anni, forme estreme che tendono a riversarsi contro bersagli sempre più fragili. Sappiamo che non ci sono ricette facili per un male che affonda le radici in un disagio più ampio e storicamente situato; ma ci sono buone pratiche che possono aiutarci a ristabilire un contatto con un mondo, quello dei giovani, che ci proponiamo di riscoprire.
Perciò rimarchiamo la necessità e l’urgenza di continuare ad abitare e muoverci negli spazi, formali e informali, che le nuove generazioni vivono quotidianamente; sostare, insieme a loro, negli attuali interstizi della storia, nella mancanza di risposte, dentro la cecità e il vuoto di progetti, obiettivi, percorsi, che i giovani stessi possano riempire con i loro progetti, obiettivi, percorsi; rinunciare, seppure a fatica, ai pregiudizi che ci siamo costruiti, all’illusione di averli compresi una volta per tutte, per provare a scoprire, insieme a loro, chi sono, chi siamo e in che direzione vogliamo (ri)orientarci. I ragazzi e le ragazze nelle nostre città osservano più di quello che gli adulti credono di sapere. Di più: si rispecchiano nel mondo che abitano e in quel mondo, non di rado fatto di panorami degradati e contraddittori, creano la propria identità. Ecco perché i ragazzi e le ragazze stanno male prima di tutto quando abitano un mondo che sta male, imbruttito, non curato, dove indifferenza e abbandono sono visibili a occhio nudo: nel lassismo delle amministrazioni, nel degrado o nell’assenza degli spazi di aggregazione. Per questo è proprio nei confronti dei luoghi delle città che si indirizza la rabbia dei giovani, in uno sfogo esplosivo di violenza che nasce dalla frustrazione di chi è nato nella desolazione e nella desolazione è cresciuto.
Ma la violenza non porta con sé per forza di cose intenti distruttivi. In alcuni casi si propone come un modo come tanti per riappropriarsi di spazi abbandonati e chiusi. “Le case vuote puzzano di marcio e di sconfitta”, cantano i Ministri. Vale più ancora quando negati sono gli spazi in comune, moltiplicatori di socialità e di esperienze. I gesti violenti sono il rifiuto del “marcio” e della “sconfitta”. Ragazze e ragazzi chiedono di metterci voce, di potere incidere sul destino, e gridano “no, non vogliamo più subire”. Reagiscono alle politiche sbagliate, di cui non conoscono le dinamiche, ma di cui sono costretti a subire le conseguenze; reagiscono alle pedagogie culturali del passato, che li osservano per creare nuovi metodi educativi; reagiscono a sistemi da cui si sentono alieni, che non li riconoscono e in cui non si riconoscono (la scuola e, certe volte, anche la famiglia). Reagiscono, insomma, a tutti quelli che parlano o lavorano per i giovani, per delega mai ricevuta o per presunta implicita superiorità anagrafica, formativa, morale ed etica. I ragazzi e le ragazze non sono al centro della progettualità educativa. Non fanno parte dell’elaborazione strategica, non frequentano le sedi di discussione, tornano al massimo nel momento delle “azioni”, ma solo quando sono pronte e calendarizzate. Il “protagonismo giovanile” è una suggestione, bella ma definita altrove e paracadutata preconfezionata in forma di calendario, di festival, di singola giornata, di laboratorio, e così via.
Il Gruppo Abele risponde con l’educativa di strada e l’outreach, metodo che parte dall’assunto che sono gli adulti (educatori, educatrici, mediatori, mediatrici, operatori sociali in generale) a dovere compiere il primo passo. Scendiamo sul terreno d’incontro delle ragazze e dei ragazzi, stiamo ai loro tempi, linguaggi, temi. Da questo scambio nascono legami deboli. “Deboli” che però non vuol dire “superficiali”, quanto piuttosto “non di forza”. E se i legami “di forza” sono quelli imposti dall’alto, i legami deboli sono fatti di vuoti, di silenzi, di incertezze, da riempire insieme.
La debolezza è dunque la forza della relazione, perché giovani e operatori liberano l’immaginazione, esercitano la libertà e costruiscono delle possibilità inesplorate.
Ma gli adulti sono in grado di fermarsi e mettersi in ascolto? Di assumere un reale atteggiamento di genuina curiosità e assenza di giudizio nei confronti dei ragazzi e delle ragazze, rinunciando agli stereotipi che ci siamo costruiti su di loro? Siamo pronti, come adulti, operatori e società a farci guidare dai giovani in territori che non conosciamo e che sono, per loro definizione, in costante mutamento? Siamo pronti, di conseguenza, a cambiare di pari passo con queste mutazioni?
Da queste risposte passa tanto del lavoro educativo che sarà, ma soprattutto del mondo e della società che verranno. Una comunità, piccola o grande che sia, non in grado di inserire i giovani nei percorsi educativi e di cittadinanza, è una comunità che, nel riprodurre lo stesso grado di alienazione, frustrazione ed estraneità, si espone alla violenza. Una violenza parlante, espressione di un disagio e portatrice di istanze, che urge sin d’ora iniziare a leggere come “politica”. Bisogni insoddisfatti, giovani inascoltati. La violenza come mezzo. Non esiste una categoria indifferenziata di “giovani”. Aggregare e appiattire è comodo, semplifica, accorcia i tempi, ma in un mondo che cambia e si fa più complesso aumentano anche le differenze.
I fenomeni migratori hanno più di tutto inciso su questo panorama in cambiamento. Oggi le nostre città sono abitate da ragazze e ragazzi che, alle storiche domande dell’adolescenza, sommano tutte le problematicità di chi, oltre a se stesso, è alla ricerca di un contesto identitario. A questo, si aggiunge che, dentro e fuori il sistema scolastico, si tende a riconoscerli a partire dalle difficoltà, dagli errori, dalle mancanze. La società performante non prevede ritardi sulla tabella di marcia e, dunque, il primo obiettivo – dentro e fuori la scuola – non è indagare le risorse, ma i possibili inciampi. Bollati quasi irrimediabilmente, la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze rinunciano ai propri percorsi. In questa dispersione psicologica e sociale, la violenza diventa una forma di affermazione e riconoscimento, una possibilità per affrancarsi da storie segnate dal fallimento precoce, dalla discriminazione sociale, dalla povertà materiale e culturale, dalla solitudine.
Di più: non semplicemente uno degli strumenti possibili ma il migliore e più rapido per capovolgere un destino “sfortunato”, che, prima ancora che proprio, è stato dei genitori o dei nonni. Un destino che li vede lontani anni luce da quello che vorrebbero e che i media propugnano come modello di “successo”. È a questo punto che l’identità di “perdente” diventa identificativa, si salda con altre identità comuni e si scaglia con forza contro i modelli immaginati e desiderati. “Non posso raggiungerti? Ti danneggio”, ecco il principio. Nasce il nemico, spesso più frutto di rabbia che di conflitto sociale. Sono i messaggi e gli atti con cui ci confrontiamo, che circolano sui telefoni, nelle chat, corrono di bocca in bocca, nei pezzi trap ascoltati o scritti. È la forma di violenza che possiamo negare o, peggio, giudicare sommariamente e condannare come i benpensanti della Città Vecchia cantati da Fabrizio De André; oppure fare lo sforzo di ascoltare, sapendo che esiste, pulsa nel cuore delle periferie, spesso ci abita di fianco, nelle case a un palmo di naso da noi, e che no, non scompare.
E poco importa se ne viene danneggiata l’immagine tutta occidentale del “fanciullo innocente”, dietro il cui paravento ci ripariamo da fin troppi decenni. Poco importa se tocca riconoscere il fallimento dei nostri modelli culturali, pedagogici, educativi, familiari, politici. I giovani, e soprattutto i portatori di complessità che abitano i margini, stanno offrendoci un’occasione irripetibile: guardare il mondo per quello che è per cambiarlo in maniera radicale e irreversibile.
Dentro e fuori le scuole, ci viene chiesto di intervenire su ragazzi, ragazze e, talvolta, gruppi problematici, spesso violenti verso i propri pari, se stessi o le istituzioni. Il nostro sforzo è di schiarire le cornici entro cui viene espressa questa violenza, per provare a comprenderne le radici e i significati. Il più delle volte progettiamo interventi individuali di riparazione del danno, altre volte laboratori o percorsi sui temi del conflitto, delle emozioni e della cooperazione, per costruire, con i ragazzi, strumenti e strategie per imparare a gestire le dinamiche relazionali, per dialogare tra loro e con il mondo degli adulti, per elaborare nel gruppo i propri vissuti.
Tuttavia c’è un problema alla base: invece di essere strutturali, questi interventi sono considerati necessari (addirittura urgenti) in quanto vengono circoscritti a un “evento eccezionale”: sia un fenomeno problematico, una categoria sociale “deviante”, sia un ambiente considerato pericoloso. Nei percorsi educativi dentro e fuori la scuola, è raro trovare spazi di socialità positivi, percorsi di riconoscimento reciproco e di gestione delle emozioni, spazi di mutuo-aiuto, di parola (e ascolto) e di comunità. È raro vedere progetti e percorsi educativi e formativi personalizzati dedicati a ciascun ragazzo o ragazza, se questi ultimi non sono considerati “a rischio”, e dunque bisognosi di misure eccezionali e di interventi di recupero. Proliferano così le etichette diagnostiche o, peggio, sociali che specializzano i ragazzi e definiscono target a cui rivolgere interventi: a rischio di dispersione scolastica; con manifesta sofferenza psicologica; Bes (Bisogni educativi speciali) o Dsa (Disturbi specifici dell’apprendimento). Non sarebbe più sensato ed efficace intervenire a monte e in maniera strutturale, personalizzata e preventiva sui territori, sulle progettualità e pratiche sociali e pedagogiche? Non sarebbe più sensato considerare ciascuno studente, ciascuna studentessa, come un essere unico riconoscendone fragilità e risorse? Non sarebbe utile fare della scuola (e, a cascata, degli altri luoghi educativi e formativi) dei moltiplicatori di valori nonviolenti, dove attivare processi di solidarietà, esperienze di apprendimento collettivo, spazi creativi e di espressione di sé e delle proprie emozioni?
Vorrebbe dire cambiare il paradigma, rimettere mano, per sovvertirlo, a un sistema talmente consolidato nel tempo da essersi incancrenito, spostando il focus dall’emergenza alla prevenzione. Prevenzione che significa agire sulle cause prime che portano alla violenza, che non stanno quasi mai nei giovani, quanto piuttosto nel mondo e nelle scelte di adulti e istituzioni. Ecco allora l’obbligo di “rifare” democraticamente le nostre città, immaginarne e fondarne di nuove: città dentro le città ma non mondi a parte, a tenuta stagna, città aperte che possano ospitare fragilità, dubbi e bisogni di ragazze e ragazzi, dare cittadinanza alle loro idee, ai loro valori, ai loro stimoli culturali. Città plurali che costruiscano il futuro facendo nuovo il presente.
*Serena Villani, psicologa e operatrice del Gruppo Abele; Francesco Minsenti, educatore di strada del Gruppo Abele