Ripensandoci, fa impressione. In questi giorni il manifesto compie cinquant’anni (primo numero il 28 aprile 1971, quattro pagine al prezzo di cinquanta lire). Traguardo, per altro, già varcato con i cinquantadue anni trascorsi dall’uscita del primo numero del mensile (giugno 1969), che lasciò il posto al quotidiano. Bisogna ricordarlo: il manifesto esisteva prima di Repubblica, che nacque nel 1976. Ed è in edicola e su internet tuttora ogni mattina, a differenza dei “cugini” dell’Unità e di altre testate della sinistra scomparse.
Si tratta perciò di un miracolo politico ed editoriale su cui indagare. Ha pure coinvolto varie generazioni di giornalisti e militanti. Infatti, il manifesto è stato una scuola di giornalismo, oltre che di politica, senza eguali. Per chi si ricorda dello stanzone di piazza del Grillo 10 (prima sede della rivista) e delle stanze del quinto piano di via Tomacelli 146 (indirizzo della redazione per tanti anni), c’è da stropicciarsi gli occhi increduli. Nel 1971 si pensava a un “quotidiano corsaro”, come amava definirlo Luigi Pintor. Si puntava, in quel momento, a qualcosa che avrebbe avuto vita incerta e forse breve. Si scoprì in corso d’opera che si poteva fare politica nella “forma giornale”. Ora il manifesto fa parte a tutti gli effetti della storia della sinistra italiana e del giornalismo nazionale. Sottoscrizioni e chiamate di aiuto per scongiurarne la chiusura hanno sempre funzionato.
Pochi hanno memoria però della temperie politico-culturale in cui prese avvio la sinistra comunista di origine ingraiana, che darà vita alla rivista mensile il manifesto e poi al quotidiano, radiata dal Pci a fine 1969: aperto dissenso sul “socialismo reale”, analisi specifica del neocapitalismo italiano, limiti dell’azione dei primi governi di centrosinistra, necessità del rinnovamento del soggetto “partito” e della sua cultura, lettura dei nuovi movimenti del 1968-1969. In quel quadro ci fu la nascita originale del quotidiano come un “secondo giornale” non esaustivo sulle news ma di orientamento politico-culturale. Ebbe immediato successo in rapporto al bisogno di novità che albergava nel giornalismo e nell’editoria italiani. L’informazione era infatti, fino agli anni Sessanta, arretrata, asservita, senza grandi tradizioni democratiche. I giornalisti, dal canto loro, erano una casta chiusa e autoreferenziale. Il ’68 fece irruzione in questo campo, chiedendo la democratizzazione delle direzioni dei giornali e delle redazioni. La “professione” fu invasa dai tanti giovani formatisi nelle redazioni di manifesto, Quotidiano dei lavoratori, Lotta continua e poi in quelle delle emittenti libere. Si inventò il linguaggio della “controinformazione” e del giornalismo non bacchettone.
Un quotidiano originale come il manifesto, che ormai ha raggiunto la mezza età, assomiglia fin dalla nascita a una sorta di periscopio. Riunioni di redazione, scelte di impaginazione, titoli, fotografie servono a racchiudere in fogli stampati le notizie del giorno e a offrirne la lettura ragionata. Siccome il manifesto non è mai stato un giornale come gli altri, alla cronaca della giornata ha sempre unito approfondimenti, commenti, analisi, documentazione, interviste con lo sforzo di fornire informazione e ricerca allo stesso tempo.
Nel 1971, eravamo una redazione di giovanissimi apprendisti e collaboratori (c’ero anch’io) che imparavano con passione il mestiere sul campo, avendo maestri di prim’ordine: Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Lucio Magri, Luciana Castellina, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Filippo Maone, Lidia Menapace e altri. C’erano, inoltre, a mettere ordine nella caotica redazione di via Tomacelli, due caporedattori di ferro, oltre che di provata esperienza: Luca Trevisani e Michele Melillo, giunti entrambi da l’Unità.
L’autorevolezza del giornale negli anni Settanta nacque sicuramente grazie al suo gruppo dirigente cresciuto nel dissenso maturato in un partito comunista peculiare come quello italiano e rimasto coerente nella sua collocazione originaria che puntava a una uscita da sinistra dalle angustie dei residui dello stalinismo e dell’ortodossia terzointernazionalista. Spetta ora a chi fa questo giornale ai giorni nostri interrogarsi con i lettori sulla sua utilità, collocazione e fattura, rinnovandolo per l’ennesima volta (a dirigerlo ci sono due “ragazzi” del 1971: Norma Rangeri e Tommaso Di Francesco).