Piuttosto che a stabilire un parallelo con la guerra del Kippur di cinquant’anni fa (peraltro conclusasi con una disfatta delle forze arabe), lo stato maggiore israeliano farebbe meglio ad analizzare la guerra in Libano del 2006, che sembra proprio la matrice strategica della spettacolare offensiva con cui Hamas ha bucato l’intero sistema difensivo, e soprattutto la ramificata infrastruttura di controllo, che fino a oggi sembrava una protezione inossidabile attorno alla striscia di Gaza. Infatti i veri sostenitori, e oggi potremmo dire addestratori, di quella cavalleria avio-trasportata tramite deltaplano, che ha potuto scavalcare le barriere delle forze di Tel Aviv, sono stati gli Hezbollah, cioè le milizie filoiraniane che controllano in parte il Paese dei cedri. In quella occasione, le forze israeliane furono sorprese non tanto dalla imprevedibile iniziativa avversaria (come accadde nel conflitto del 1973), quanto dalla strategia fluida che guidava le milizie sciite, che costrinsero i carri armati con la stella di David a indietreggiare.
In quella che è ricordata come l’unica guerra contro gli arabi che Israele non riuscì a vincere, fu proprio la mobilità e l’uso di tecnologie distribuite a portare i “guerriglieri di Dio”, come si definiscono quelle milizie, a colpire con devastante efficacia l’esercito israeliano. Attorno alle città del Libano meridionale, in quei giorni del 2006, andò in scena una forma di combattimento del tutto inedita per quel tempo: gli Hezbollah si erano organizzati in gruppi ridotti, ma estremamente attrezzati, con sistemi di comunicazione cifrata e soprattutto con le prime forme di georeferenziazione, che permettevano una mobilità intelligente, accerchiando ogni singolo blindato che avanzasse dalle colline del Golan. Dopo alcune settimane di continue scaramucce, che costarono molte perdite, le truppe comandate dal futuro premier Ariel Sharon, smobilitarono in maniera anche disordinata, dando l’impressione di una vera e propria rotta.
John Arquilla, che poi diventerà uno dei consiglieri militari più ascoltati dal presidente Obama, scrisse in quei giorni sul “New York Times” (come riportato nel mio libro Net-war, Donzelli editore) che “Hezbollah accede a saperi e competenze attraverso la rete. Così la potenza militare viene disintermediata dagli Stati nazionali. (…) Il mondo è entrato in una fase di guerriglia perpetua e irregolare (…) guidata dalla forma del network che costituisce una minaccia per il potere americano. Per battere un network ci vuole solo un altro network”. Parole davvero profetiche, se pensiamo a cosa è accaduto successivamente: dalla guerra ibrida teorizzata dal capo di stato maggiore russo Valery Gerasimov, a Cambridge Analytica, fino al conflitto in Ucraina, con al centro l’articolazione di quel “capitalismo della sorveglianza” che ha permesso al sistema americano di realizzare un network virtuale in tutto il globo, reclamato da Arquilla come unico modo per contrastare la nuova forma molecolare degli avversari su tutti i nuovi scacchieri.
Paradossalmente, proprio il Paese che sembrava più sensibile e predisposto a cogliere la lezione che gli americani avevano elaborato sulla scorta del Libano – il Paese che produce i sistemi di cybersecurity, ma anche quelli di cyber-attack, più sofisticati ed efficienti – si è trovato del tutto sguarnito dinanzi a una pratica diretta di questa nuova guerra ibrida. Eppure gli analisti del Mossad, il mitico sistema di spionaggio esterno israeliano, hanno attentamente seguito e decifrato quanto sta accadendo in Ucraina. Sono loro che hanno organizzato i primi seminari a Be’er Sheva, la Silicon Valley a mezza strada fra Tel Aviv e Gerusalemme, insieme agli esperti atlantici. Non può essere sfuggito alla loro esperienza il carattere della resistenza attorno a Kiev nella prima fase dell’invasione russa, quando proprio le nuove geometrie flessibili e distribuite delle tecnologie di comunicazione hanno permesso agli ucraini, in un innovativo modello di combinazione fra militari e civili, di stringere attorno alle forze convenzionali di Putin, una rete di monitoraggio e localizzazione, che ha trasformato i mezzi corazzati e persino i generali in un bersaglio scoperto per i loro droni georeferenziati.
La novità del 2006, che oggi Hamas propone in una versione ancora più aggressiva, riguarda l’elaborazione e la gestione di tecnologie che erano considerate di dotazione esclusiva di grandi apparati statali. Non a caso, poco dopo il ritiro israeliano dal Libano, un report commissionato dalla Casa Bianca alla Brooking Institution esplicitamente spiegava che “siamo in una situazione dove gruppi privati possono disporre di grandi saperi e poteri tecnologici prima riservati agli Stati. E oggi non abbiamo risposte adeguate per questo tipo di conflitto” (vedi il mio Algoritmi di libertà, Donzelli editore).
Da allora sono passati più di quindici anni, e accanto alle piattaforme di distribuzione abbiamo oggi sistemi di intelligenza artificiale, che supportano, con grandi capacità di calcolo, l’interesse di quei gruppi privati così temuti dagli americani, che continuano ad avere ancora fresco il ricordo dello shock dell’11 settembre. E ci sono anche realtà, come la flotta satellitare di Elon Musk, che si permettono di giocare in proprio la partita geopolitica (vedi qui). A questo proposito, sarebbe interessante sapere se i più di ventiquattromila satelliti del magnate sudafricano sono stati in qualche modo impegnati, ovviamente a pagamento, nell’operazione di Hamas.
Sicura è la défaillance dell’intero sistema di monitoraggio, che sembrava implacabile, stretto attorno ai territori dai servizi israeliani. Non solo per la distrazione, come si dice dei reparti migliori spostati a protezione delle colonie al Nord, oppure demotivati dalla protesta contro l’arroganza del governo di Netanyahu. C’è da considerare che le tecniche adottate, dai deltaplani all’uso di mezzi civili come i pick-up o le moto, fino alle postazioni mobili per il lancio dei missili, sono più camuffabili nella vita ordinaria e meno intercettabili dai sistemi di controllo esterni. La società civile è diventata trincea, rimanendo però sistema di vita quotidiana.
Ovviamente, sullo sfondo del conflitto, che è drammaticamente solo alle prime fasi, rimane la condizione di subalternità politica e militare che i palestinesi soffrono ormai da molti decenni. Una condizione che rende i diversi sussulti di guerra un unico tentativo di non accettare la propria sconfitta, mettendo in campo la disperazione come unica terribile arma contro il vincitore. Così come non possiamo non interrogarci sulle ragioni di un fallimento politico, che mostra i palestinesi sempre più isolati sulla scena globale, sia nel mondo arabo, che ha sempre considerato strumentalmente la causa di quella popolazione, sia rispetto all’opinione internazionale progressista, che appare del tutto curva sul proprio “particulare”.
Dunque bisogna chiedersi quale obiettivo si pone questa fiammata – che non può non avere alle spalle un radicamento sociale, un consenso locale, una mobilitazione di migliaia di giovani e di professionisti che hanno partecipato a questo corale progetto militare – e attraverso quale sistema di intese spera di potere conseguire un risultato. Certo, abbiamo detto degli Hezbollah. Ma sappiamo bene il cinismo e la strumentalità con cui si muovono le milizie filoiraniane. La loro bussola sta a Teheran, dove bisogna intendere in quale direzione gli ayatollah intendano muoversi. La ripresa di un confronto con i sauditi, di cui si era parlato, come conseguenza di un possibile accordo di Riad con Israele – mossa patrocinata da un crogiuolo di forze spurie, come i turchi e persino i russi –, sembra oggi meno lineare. Lo stesso dicasi per le ambizioni di Ankara, che ancora non ha fatto sentire la sua voce e si trova ora in una singolare strettoia fra le relazioni con l’Iran e quelle con Tel Aviv, coltivate in questi mesi di tentata mediazione sul fronte ucraino.
L’orizzonte politico non è certo una variabile marginale. Lo sforzo di organizzazione e di mobilitazione civile, che vediamo dispiegarsi in questi giorni, non può prescindere da una persuasiva azione per chi a Gaza aveva comunque trovato un modus vivendi, che oggi sicuramente non potrà più essere salvaguardato. I mesi di addestramento, di accumulo di mezzi e tecnologie, di simulazioni, che hanno preceduto l’attacco del 7 ottobre, devono essere agganciati a un obiettivo che sia condivisibile per la borghesia affaristica di Gaza, oggi assediata dalle forze israeliane.
Come per l’Ucraina, una Net-war, prevede sempre una Net-peace. Una guerra articolata, e basata sull’attivazione di saperi e abilità da parte della popolazione, implica una partecipazione della stessa popolazione, diciamo delle sue élite, ai successivi processi di intesa e negoziato. Al momento, sembra di intravedere solo effetti indiretti dell’attacco: imbarazzo per i sauditi, centralità conquistata dagli iraniani, colpo forse irrimediabile agli equilibri interni a Israele, con un forte indebolimento della lobby dei coloni e dei fondamentalisti religiosi. Risultati non certo da svalutare, ma che rischiano di avere un prezzo molto alto per la popolazione civile. Come uscire dalla propria vittoria? Questa la domanda che Hamas non può esorcizzare, dopo aver trovato un modo per uscire dalla storica sconfitta.