Negli anni Settanta, al tempo delle sue celebrate battaglie civili, “L’Espresso” di Eugenio Scalfari, lontanissimo parente del settimanale attualmente mandato in edicola da un abile affarista irpino, era noto per essere “riformista in politica e liberista in economia”: tanto la testata appariva determinata nel fiancheggiare l’idea di un’apertura a tutta la sinistra, compreso il Partito comunista di Berlinguer, quanto invece era rigorosamente monetarista sulla politica finanziaria e fiscale, come confermava il fatto che una delle firme più rilevanti della sua sezione economica era il governatore della Banca d’Italia del tempo, Guido Carli, notoriamente poco avvezzo al socialismo, che firmava con lo pseudonimo di Bancor. Il quotidiano “la Repubblica”, nato nel 1976 da una costola del settimanale, e controllato oggi dalla finanziaria degli eredi di casa Agnelli, ci ripropone questo dualismo, in una versione adeguata ai tempi.
Rimanendo ancora, infatti, un sostenitore dei diritti civili insidiati dalla destra e un fiero oppositore del populismo reazionario, sul terreno delle strategie tecnologiche – e di conseguenza delle nuove relazioni sociali e istituzionali, che mediante le modalità ormai più estese di intelligenza artificiale, arrivano a condizionare i nostri comportamenti individuali e collettivi – è ormai un collaudato house organ delle grandi piattaforme monopoliste della Silicon Valley. Una scelta che non riguarda solo un dibattito culturale sulle diverse opzioni tecnologiche, ma ipoteca le scelte economiche e politiche sulla riorganizzazione dello Stato e di settori nevralgici come la sanità, la giustizia, o il campo dell’informazione.
Da tempo Gedi – la società a cui fa capo il quotidiano romano, impegnata in una progressiva politica di dimagrimento che potrebbe portare anche alla dismissione della testata fondata da Scalfari – si propone come cliente e promotore degli interessi dei grandi marchi tecnologici come Google, Apple e Microsoft. Negli ultimi giorni, con una spettacolare iniziativa – la Italian Tech Week, un’intera settimana di dibattiti e forum organizzata a Torino con la partecipazione di scintillanti nomi del jet set digitale –, siamo arrivati alla completa identificazione dell’interesse nazionale, e ancora di più del destino di intere generazioni, con l’azione dei proprietari dei sistemi digitali, che hanno occupato il mercato, presentati come novelli principi rinascimentali, senza macchia e senza paura.
Il programma dell’iniziativa si basava sulla passerella concessa ai grandi nomi dello scenario tecnologico – come il fondatore di OpenAI, Altman, o il proprietario di Airbnb, la piattaforma che sta ridisegnando la residenzialità nelle nostre città grazie al controllo del mercato degli affitti brevi, Brian Chesky – che si sono profusi in stucchevoli e retoriche descrizioni delle “magnifiche sorti e progressive” di questo tipo di innovazione, saldamente ancorato al monopolio di pochi gruppi multinazionali, senza l’ombra non di un contradditorio ma neppure di una riflessione critica su quanto sta avvenendo in quello che Shoshana Zuboff ha chiamato il “capitalismo della sorveglianza”.
Singolare appare il fatto che, mentre perfino negli Stati Uniti il governo sta mettendo sotto accusa i centri che controllano il mercato comunicativo e commerciale del Paese, e in Europa si approvano provvedimenti di contenimento e limitazione della loro libertà discrezionale, sulla base di deformazioni ormai visibili nel campo del giornalismo e della sanità, a Torino si celebravano invece questi samurai dell’innovazione descritti, mediante la dannunziana e decadente mitologia dei superuomini e prendendo in ostaggio le citazioni da Steve Jobs, come “folli, reietti, ribelli rompiscatole”.
Stiamo parlando di personaggi che hanno del tutto stravolto i sistemi sociali, esercitando un dominio che l’antitrust americano ha definito come inquinante e distorcente di ogni regola del sistema economico. Il controllo di sistemi psicosociali, quali sono le forme di relazioni digitali – dalle piattaforme di profilazione ai dispositivi di intelligenza artificiale –, basato sulla personalizzazione di ognuno dei milioni di utenti che entrano nella “infosfera”, non è assimilabile al successo commerciale del mondo della moda o della creatività industriale, ammesso che anche in quegli ambiti il monopolio del mercato possa mai essere compensato dal talento occasionale. Qui non è in ballo semplicemente l’affermarsi di un’idea, o il prevalere di uno stile organizzativo, come fraudolentemente si vuole accreditare; stiamo piuttosto celebrando quello che il filosofo Remo Bodei definiva un “dominio assoluto sulle persone”.
Una legge del contrappasso, oltre che il cambio di proprietà che ha reso “la Repubblica” strumento dei fratellini Elkann e dei loro interessi finanziari, mostra come il giornale che si è battuto, anche a costo della propria sopravvivenza, contro il talento di Berlusconi che stava minacciando l’intero sistema mediatico italiano, oggi si accodi a cantare le lodi dei padroni dei nostri dati. Eppure anche il signore di Mediaset era un imprenditore di successo.
Per afferrare il senso di questa operazione ideologica, mirata a imporre un unico modello tecnologico e a escludere ogni visione critica e negoziale dei processi innovativi, basti osservare come si sia voluto ridurre l’intera discussione, che agita il fronte dell’intelligenza artificiale, a una fantascientifica contrapposizione fra umani e macchine, per permettere poi ai titolari di questi dispositivi di rassicurarci con la banale e scontata considerazione che, dietro a ogni algoritmo, rimane la mano del suo programmatore. Il messaggio che è stato veicolato, nel silenzio generale di tutte le componenti politiche e sociali del Paese – dal versante sindacale ai giornalisti – era che, al netto delle chiacchiere etiche, bisogna fare come quelli che hanno vinto, a cominciare dai più grandi. Un messaggio che aveva già lanciato Gianroberto Casaleggio, nella prima fase del suo movimento, che si faceva appunto megafono di questa ideologia del liberismo digitale come unica strategia di innovazione.
Il pericolo – complice l’assenza di ogni dialettica da parte di una sinistra che tace su questi temi, pur avendone piena conoscenza come l’attuale vertice del Pd – è quello di rimuovere ogni spezzone di visione critica e conflittuale dal senso comune delle aree più progressiste, imponendo l’idea che l’innovazione sia solo quella quotata in borsa. L’obiettivo finale è che l’innovazione non si può innovare, ma è definita esclusivamente dai primati del mercato, e soprattutto non consente o tollera forme di attrito sociale che possano rimodulare linguaggi e azione di queste automazioni. In questo buco nero cadono le domande, che già avanzava il cardinale Martini qualche anno fa, nel corso dei suoi dialoghi con i non credenti: “Sono così minacciose tutte le tecnologie del virtuale? l’intero cammino dell’intelligenza artificiale finirà per svalutare il valore della persona?”.
Interrogativi straordinariamente simili a quelli che si pose la sinistra al tempo della prima automazione, quando Marx parlava di alienazione e sfruttamento del lavoro, e poi introduceva il tema di una separazione completa fra la macchina sofisticata e il lavoratore. Proprio come allora, anche oggi il dualismo non è fra apocalittici e integrati, fra il rifiuto luddista di ogni tecnologia e una subalternità organica alla proprietà; consiste invece fra chi, come ha chiesto recentemente papa Francesco, ritiene di dover “iscrivere nelle tecnologie digitali i principi di dignità della persona, della sussidiarietà sociale, della solidarietà e condivisione”, e chi si affida al mercato. La negoziabilità degli algoritmi e la socializzazione dei dati sono il vero tema posto all’ordine del giorno persino dalla vertenza che sta impegnando a Hollywood il mondo della industria culturale, come avrebbe detto Adorno. Siamo in proposito a un tornante fondamentale, dove non è più consentito né tergiversare né svendere ogni etica professionale agli interessi dei propri padroni.
In discussione, man mano che le tecniche si fanno più complesse, insinuandosi nei nostri collegamenti neurali, è la potenza della riproduzione della nostra mente. Come scrive Federico Cabitza, docente alla Bicocca di Milano, riguardo all’interazione uomo-macchina, in Intelligenza artificiale: l’uso delle nuove macchine, pubblicato insieme a Luciano Floridi, “queste tecnologie, infatti, operano e muovono effettivamente cose immateriali, rappresentazioni di segni e quindi idee; ma ciò che fanno rende possibile l’estrazione, la lavorazione e il movimento di materia, ci permettono di contare, ordinare e disporre gli oggetti, gli uomini e le loro azioni”. E citando un padre della cibernetica come Wiener, conclude che “queste tecnologie rendono più efficiente lo sfruttamento degli esseri umani da parte di altri esseri umani”.
Non si può più perdere tempo a fare gli esamini a ChatGPT, o a soppesare la funzionalità di Bard. Dobbiamo mettere in campo una nuova cultura delle relazioni sociali che inquadri come materia negoziale la struttura e il corredo etico di questi meccanismi immateriali, perché, come scrive Floridi nel testo citato, “l’intelligenza artificiale è un’agency e non un intelligence”: per cui basta perdere tempo chiedendosi se pensa come noi, cerchiamo piuttosto di costruire procedure rispetto al fatto che sa fare cose che l’uomo non riesce a fare in quel modo e con quella velocità.
Dunque, parlando ora al mondo del lavoro e alle componenti professionali dei grandi comparti investiti da questo dominio – l’informazione, la sanità, la governance territoriale –, dobbiamo aprire una nuova stagione che adegui la tradizione di critica sociale al determinismo tecnologico, con l’ambizione di riprogrammare e reindirizzare una potenza che libera socialmente grandi masse dall’oppressione della fatica e della subalternità, assicurando un controllo sociale sull’intero ciclo di produzione di queste forme artificiali, a partire dalla ricerca. Una stagione in cui il pensiero sia il terreno di confronto e conflitto non fra umani e macchine, ma fra i pochi gruppi di calcolanti e le moltitudini di calcolati.