Mancano più di tredici mesi alle elezioni presidenziali americane e i giochi sembrano già fatti. Anche se le primarie per la scelta dei due candidati inizieranno solo a gennaio, si dà per certo che saranno Donald Trump per i repubblicani e Joe Biden per i democratici. Nei sondaggi Trump si attesta intorno al 55% dei consensi tra gli elettori repubblicani, a una distanza incolmabile per gli altri principali contendenti (Ron De Santis, Nikki Haley, Tim Scott), mentre altri candidati, come l’ex vicepresidente Mike Pence o Chris Christie, sono scomparsi strada facendo. La ragione è semplice, e al contempo paradossale: nessuno di questi candidati ha preso le distanze dalle farneticazioni di Trump sulle elezioni “rubate” del 2020, né ha condannato i suoi incitamenti alla violenza, né (con l’eccezione di Christie) ha mostrato un qualche disagio per il fatto che un candidato alla presidenza sia incriminato per gravi reati. Di fronte a tali contendenti è abbastanza naturale che gli elettori repubblicani preferiscano l’originale rispetto alle sue pallide e tremebonde imitazioni. Il paradosso sta nel fatto che, mentre gli elettori repubblicani sono schierati in così larga misura con Trump, i leader politici del partito lo sono molto meno.
Le elezioni politiche (cosiddette di midterm) di un anno fa hanno dimostrato che la figura di Trump “tira” tra la sua base più entusiasta, ma è un freno nei confronti degli elettori repubblicani moderati, e soprattutto di quel terzo circa di indipendenti indispensabili per vincere le elezioni generali. A novembre 2022, i repubblicani, contro ogni previsione, non sono riusciti a strappare neppure il seggio in più al Senato che avrebbe dato loro la maggioranza, anzi ne hanno perso uno. Hanno ottenuto la maggioranza alla Camera, ma di strettissima misura, e molti dei candidati sostenuti da Trump sono stati bocciati dagli elettori che hanno votato per figure meno divisive o addirittura per i candidati democratici. Per di più il nuovo speaker repubblicano, Kevin MacCarthy, ha faticato non poco a farsi eleggere, e deve quotidianamente barcamenarsi tra la maggioranza del suo gruppo e la destra più radicale capitanata dalla pasionaria Marjorie Taylor Greene.
Il campo democratico offre un’immagine quasi speculare a quella repubblicana. Anche qui c’è un candidato “inevitabile”, Joe Biden, che è anche il capo di fatto del partito. Nonostante tra i leader democratici serpeggino molte perplessità sulla sua candidatura, e non solo legate all’età avanzata, nessuna voce autorevole si è levata per contrastarlo, neppure nella sinistra del partito che pure avrebbe molti motivi politici di dissenso. Ci sono un paio di candidati alternativi, ma si tratta di figure marginali e anche francamente imbarazzanti, come il no-vax Robert Kennedy (nipote di Bobby Kennedy ucciso nel 1968) e la “guru” spiritualista Marianne Williamson famosa per i suoi libri di self-help. A fronte dell’assenza di oppositori nel partito, c’è invece l’opposizione degli elettori democratici: sondaggio dopo sondaggio, si conferma che da due terzi a tre quarti di costoro preferirebbero un altro candidato, anche se nessuno indica quale potrebbe essere. Insomma, la base democratica non vorrebbe Biden (anche se forse alla fine lo voterà), i vertici del partito sì.
Anche in questo caso la ragione è semplice, ed è legata non tanto alla performance del presidente in carica, giudicata non esaltante ma per lo più soddisfacente, quanto all’età. Non tanto l’età in sé; dopotutto al mondo ci sono molti leader politici e religiosi (in Italia, per esempio, il presidente Mattarella e papa Francesco) più anziani di Biden che danno prova di essere nel pieno delle proprie facoltà, se non fisiche, sicuramente mentali. Non così Biden che negli ultimi mesi è incappato in numerose “gaffe” (così vengono pudicamente chiamate). Particolarmente imbarazzante è stato l’ultimo episodio di due settimane fa a Hanoi, quando la sua portavoce ha dovuto interrompere una conferenza stampa in cui il presidente si stava rendendo ridicolo per i continui vuoti di memoria e i non sequitur. Senza dubbio, c’entrava la stanchezza di un lungo viaggio, ma evidentemente non solo.
La mancanza di entusiasmo (a dir poco) tra gli elettori incomincia a preoccupare i leader democratici, perché potrebbe tradursi, il giorno delle elezioni, in una minore affluenza alle urne dei democratici rispetto ai più motivati repubblicani. Ci sono altre preoccupazioni legate alla diminuzione dei consensi tra gli elettori tradizionali del partito (un trend in atto da anni che sta però accelerando), come gli afroamericani passati dal 90% dei sostegni a poco più dell’80, o i latinoamericani passati dal 75% a poco più del 60%. E anche tra le donne, la cui ampia maggioranza a favore dei democratici è scesa di circa cinque punti. Il risultato è che nei sondaggi a livello nazionale i due contendenti risultano oggi appaiati, con Biden in alcuni casi sotto il suo sfidante.
Naturalmente, le elezioni presidenziali americane non sono elezioni nazionali (non conta cioè il voto popolare ma il numero dei grandi elettori assegnati dagli Stati), e ci sono ancora molti mesi perché Biden rimonti la china e venga sventata la drammatica possibilità della rielezione di un uomo come Trump che tornerebbe alla Casa Bianca deciso a completare l’opera di sovvertimento della democrazia iniziata durante il primo mandato. Molte cose potrebbero ancora succedere per mutare un quadro disastroso per un verso (l’elezione di Trump) e non esaltante per l’altro (la conferma di Biden).
Il presidente potrebbe alla fine cedere alle pressioni della base e di alcuni influenti opinionisti democratici e, ottenuta la nomination, lasciare il campo alla sua vice, Kamala Harris. Il problema è che Harris, per motivi che nessuno è in grado di spiegare, al momento ha un indice di gradimento addirittura inferiore a quello di Biden. Oppure il presidente potrebbe abbandonare la corsa prima della convention democratica per fare posto a una nuova generazione di democratici (il governatore della California Gavin Newsom, il segretario ai trasporti Pete Buttigieg, la governatrice del Michigan Gretchen Whitmer o la deputata newyorkese Alexandria Ocasio-Cortez); ma è dubbio che questi candidati, tutti molto liberal se non di sinistra, abbiano la capacità attrattiva di Biden negli swing states, gli Stati in bilico, che sono sempre determinanti in una elezione presidenziale. Di qui la paralisi evidente. I leader democratici si tengono (per il momento) stretto Biden e sperano nella loro buona stella.
Anche in campo repubblicano la situazione potrebbe conoscere una svolta improvvisa (seppure le probabilità siano anche minori). Si sa dei processi di Trump: quattro penali di cui due a livello federale e due a livello statale, più due cause civili. Il processo in Georgia per frode elettorale potrebbe arrivare a sentenza entro l’anno. Se Trump verrà condannato sarebbe il secondo candidato alla presidenza (il primo fu Eugene Debs, socialista e sindacalista, incarcerato nel 1920 per ben altri motivi) a fare campagna elettorale dietro le sbarre. Può darsi che, in una simile eventualità, una parte degli elettori repubblicani lo abbandoni e che qualche leader di partito capisca che la sua candidatura costituisce una inaccettabile onta per gli Stati Uniti. (L’unico ad averlo detto fin qui è stato Mitt Romney, che però ha annunciato di ritirarsi dalla politica). Oppure potrebbe succedere il contrario, con un Trump che in carcere aumenta i propri consensi (peraltro cresciuti dopo ogni incriminazione), viene eletto con una valanga di voti, proclama una amnistia per sé e tutti i coimputati ed esce dal carcere tra folle plaudenti.
Una seconda possibilità per un cambiamento di scena è di questi giorni. Un giudice di New York ha appena rinviato Trump a giudizio per le false comunicazioni finanziarie grazie alle quali le sue aziende ottenevano da anni prestiti e mutui a tassi agevolati. Il giudice Engoron ha intanto stabilito che Trump e i suoi due figli maschi non potranno più gestire le aziende della famiglia, tra cui la famosa Trump Tower, e gli ha inflitto una multa da 250 milioni di dollari (da pagare subito). Si tratta di un colpo durissimo non solo per l’immagine di uomo d’affari di successo che Trump ha sempre vantato, ma anche perché intacca quello a cui Trump tiene di più: i soldi. Fin qui con il suo vittimismo è riuscito a raccogliere milioni di dollari per pagare gli avvocati suoi e dei suoi complici, ma qualche grande finanziatore potrebbe a questo punto cambiare idea e chiudere i cordoni della borsa.
C’è infine un ulteriore fulmine che sta per abbattersi sul candidato Trump. Il procuratore speciale Jack Smith, che sta indagando sul suo ruolo nell’assalto al Congresso del 2021 e sulle carte segrete nascoste a Mar-a-Lago, ha chiesto a un giudice federale di vietargli l’uso dei social media e qualsiasi comunicazione con coimputati e testimoni. Il timore, fondatissimo, è che Trump possa intimidire o corrompere i testi e allo stesso tempo, con i suoi insulti continui e le minacce nei confronti dei magistrati e degli oppositori politici, incitare ulteriormente alla violenza. I segnali preoccupanti ci sarebbero già tutti, e il ministero della Giustizia ha dovuto disporre la scorta a protezione di giudici e procuratori nei vari processi, oltre che dei loro familiari, tutti minacciati (credibilmente) di morte da parte di seguaci dell’ex presidente. Se neanche questo basterà a far fare marcia indietro al Partito repubblicano, convincendolo a scegliersi un altro candidato alla presidenza, vuol dire che la democrazia americana è davvero in serie, forse irreversibili, difficoltà.