D’accordo, c’è motivo di soddisfazione per il pronunciamento della Corte costituzionale: il processo agli aguzzini che sequestrarono, torturarono e uccisero Giulio Regeni adesso potrà andare avanti, anche se Il Cairo non collabora affatto, e gli imputati non hanno ricevuto neppure un avviso, essendo rimasto sconosciuto il loro indirizzo. Ma bisogna pur dire che si tratta più di un conforto per la famiglia del ricercatore e per il movimento di opinione che l’ha sostenuta durante questi difficili anni, che di una concreta possibilità di fare giustizia. Quand’anche gli esecutori del misfatto siano condannati – e tutto lascia pensare che lo saranno –, è da escludere un’estradizione da parte dell’Egitto. Si tocca qui con mano che cosa significhi una politica dei diritti umani che va a cozzare contro il realismo politico dei governi. È certo che l’Italia abbia fatto poco per affrontare il caso: ci fu, quasi all’inizio, un richiamo dell’ambasciatore a Roma, ma quando si trattò di arrivare a rompere le relazioni diplomatiche con il Paese nordafricano, ci si tirò indietro. Nel frattempo sono andati avanti tutti i contratti, tra l’altro per la fornitura di armi, che in buona sostanza non hanno fatto altro che legittimare il regime repressivo di al-Sisi.
Si poteva agire diversamente? Sì e no. Qualcosa di più i diversi governi italiani, succedutisi in questi anni, avrebbero potuto fare; ma, a dire il vero, sarebbe oggi impensabile, nel quadro geopolitico complessivo, una rottura con l’Egitto. Questo Paese, per pessimo che sia (il caso Regeni, lo sappiamo, non è affatto un episodio isolato: c’è una quantità di desaparecidos egiziani e di oppositori che languono in galera da anni, com’è capitato a Zaki), è strategicamente molto ben collocato nel sistema di alleanze occidentali in quella parte del mondo. Se la grande sollevazione di massa, da cui l’Egitto fu scosso nel 2011, avesse avuto successo, sarebbe tutto diverso. Ma, con la piena restaurazione del potere militare, si è rimasti ai tempi di Mubarak.
Che cosa significa questo? Al-Sisi è uno spietato criminale, ciò è evidente: il capo dello “squadrone della morte” che sequestrò Regeni, in base a una soffiata che proveniva dalla rete segreta di informatori del regime, è lui. Il responsabile morale e politico della sorte riservata al nostro ricercatore è al-Sisi in persona. Per portarlo alla sbarra ci vorrebbe una giustizia internazionale veramente funzionante: cioè funzionante anche nei confronti degli alleati dell’Occidente.
La politica dei diritti umani, dunque, non può che fermarsi sulla soglia di quello che sarebbe il vero processo da imbastire. Come si diceva, non sarà nemmeno in grado di ottenere quella minima giustizia che consisterebbe nell’estradizione degli accusati, una volta condannati. Essi sono dei semplici esecutori, ma protetti dal sistema dominante.
Che cosa fare allora? Occorrerebbe cominciare a comprendere che mobilitarsi per il rispetto dei diritti umani è al massimo il primo atto di una battaglia più lunga e complessa. Finché non sarà messo in questione l’attuale corso del mondo, finché non vi sarà un movimento di massa senza frontiere per la rottura di un ordine (o, per meglio dire, di un disordine) globale profondamente ingiusto e sbagliato, i diritti umani lasceranno il tempo che trovano.