Sánchez nelle mani degli indipendentisti. Dopo le elezioni del 24 luglio scorso (di cui ci siamo occupati su “terzogiornale” qui e qui), vinte dal Partito popolare di Alberto Núñez Feijóo (al quale il re ha affidato, come da prassi, il compito di tentare di formare un esecutivo, pur senza i numeri in parlamento), ma perse dal suo alleato principale i neofranchisti di Vox, i giochi sono assolutamente aperti. Il Psoe (Partito socialista operaio spagnolo) ha sostanzialmente tenuto, mentre la sinistra radicale Sumar (che significa “aggregare”, e che di fatto si è sostituita a Podemos) della ministra del lavoro Yolanda Díaz ha ottenuto un buon risultato. Ma, come per la destra, anche in questo caso non ci sono i numeri per un nuovo governo che permetta al leader socialista di restare alla Moncloa. Per questo il sostegno dei sette deputati di Junts, il partito indipendentista catalano, è dirimente.
La condizione principale posta da Carles Puigdemont – fuggito a Bruxelles dove si trova da sei anni per evitare il mandato di cattura emesso dalla magistratura di Madrid – è l’amnistia per gli indipendentisti. Il leader catalano, promotore delle durissime contestazioni del 2017 per l’indipendenza della regione e del referendum bocciato dal Tribunale costituzionale della Spagna, vuole aprire una nuova fase politica che favorisca il dialogo tra Madrid e Barcellona. Un “compromesso storico”, come lo ha chiamato l’ex presidente della Generalitat de Catalunya, per negoziare con “quanti hanno criminalizzato e represso la nostra attività politica”. Servono appunto un’amnistia e un dialogo che mettano da parte ogni tentazione “giudiziaria” per affrontare e risolvere le rivendicazioni indipendentiste. “Nelle prossime settimane – ha detto Puigdemont – saremo pronti a negoziare questo storico accordo ma solo se si creeranno le condizioni per un progetto ambizioso, altrimenti sarebbe del tutto privo di senso avviare una trattativa”. E ancora: “La domanda qui non è se siamo pronti per i negoziati. La domanda è se i due grandi partiti politici spagnoli sono pronti per i negoziati con noi”.
Il leader catalano insiste affinché venga indetto, ancora una volta, un referendum per l’autodeterminazione che potrebbe avviare l’inizio della fine dello Stato spagnolo così com’è ora. Ma questo non ferma il dialogo tra il governo ancora in carica e i catalani. Lunedì 4 settembre c’è stato un importante incontro tra Puigdemont e la ministra del Lavoro Yolanda Díaz, prima politica a recarsi in Belgio dopo gli eventi del 2017. “Ho parlato con il leader catalano – ha detto la ministra – e vi posso dire che avremo un governo in Spagna. La Catalogna – ha sottolineato l’esponente della sinistra radicale spagnola – non deve essere vista come un problema, ma come un’opportunità: è un Paese diverso, con la sua lingua, con la politica probabilmente diversa, però, comunque, la diversità rappresenta la nostra ricchezza, saremo migliori grazie alla diversità. Sì, avremo un governo progressista in Spagna”. Dal canto suo, il leader catalano ha precisato come “l’incontro che abbiamo avuto con Yolanda Díaz, Jaume Asens e Antoni Comín (altri due leader separatisti catalani) fa parte della normalità democratica nell’Unione europea. Il dialogo e le relazioni politiche tra formazioni di ideologie diverse non dovrebbero essere una sorpresa, né un’eccezione”.
La genesi di questo evento è comunque avvolta nel mistero, o quanto meno rivela una mancanza di coordinamento tra le due principali forze di governo. I socialisti sostengono che solo nella serata di domenica, dunque poche ore prima, sarebbero stati avvisati del meeting. Anche da Unidas Podemos, e più esattamente dal deputato Javier Sánchez, sono arrivate lamentele perché il suo partito, ormai quasi assorbito da Sumar, non sarebbe stato informato dell’incontro. Al riguardo, vanno segnalate altre due stranezze in questo complicato percorso che dovrebbe confermare l’esecutivo di sinistra. Da un lato, la “sincronicità” dei due comunicati firmati sia da Díaz sia da Sánchez, che sottolineano all’unisono la disponibilità ad ascoltare le richieste dei catalani. La domanda che sorge spontanea è perché non abbiano fatto un comunicato congiunto. Dall’altro, come dicevamo, la comunicazione tardiva del viaggio a Bruxelles di Díaz a Sánchez, malgrado i due lavorino, com’è ovvio, a contatto di gomito.
Contro questa probabile intesa si è scatenato un fuoco di sbarramento messo in atto, ovviamente, dall’opposizione, ma anche da esponenti socialisti. In primo luogo l’ex premier (1982-1996) Felipe González, che rappresenta l’ala più moderata del partito, non ha mai nascosto la disponibilità a un eventuale sostegno a un governo tra il Partito popolare e i socialisti. “La Costituzione non è un chewing gum, non entrano né l’amnistia né l’autodeterminazione”, ha dichiarato l’ex presidente.
La condanna dei popolari, scontata, si affianca alla richiesta di realizzare proprio un governo di unità nazionale, che tanto piacerebbe a Bruxelles, mettendo ai margini Vox, da un lato, e Sumar dall’altro, oltre che ovviamente gli indipendentisti. “Con l’incontro Díaz-Puigdemont – ha detto il deputato popolare Borja Sémper – abbiamo la conferma che Pedro Sánchez preferisce governare con un fuggitivo, anche a spese di tutti gli spagnoli, piuttosto che una legislatura basata su grandi accordi a beneficio di tutti gli spagnoli”. Il riferimento è alla proposta di un patto che Feijóo aveva fatto a Sánchez, ma da quest’ultimo rifiutato. Durissima la condanna del leader di Vox, Santiago Abascal, che ha definito “estremamente grave che il governo si trovi oggi (il riferimento è al citato incontro a Bruxelles con Díaz, ndr) con un uomo condannato dalla giustizia spagnola, cosa che non accade in nessuna parte del mondo”.
Ora Sánchez e Feijóo hanno un paio di mesi per far mettere ai voti una nuova coalizione. Attualmente la destra dispone di 176 seggi mentre la sinistra ne ha 171. Numeri che non sono sufficienti per arrivare a proporre un esecutivo stabile. Per Sánchez, come abbiamo visto, le prospettive sono all’insegna dell’ottimismo, anche perché Junts non potrà mai sostenere una coalizione di destra, soprattutto per la presenza di Vox. Se il premier dovesse arrivare a un’intesa con Puigdemont, resterebbero aperti problemi non esattamente secondari quali la modifica di una Costituzione che non prevede la possibilità di secessione, un’ipotesi che entrambi gli attori di questa trattativa, del resto, sanno non essere praticabile. Ma il leader catalano è consapevole che, qualora non arrivasse a conclusione la trattativa con la sinistra, sarà costretto a restare a Bruxelles. Se entro un paio di mesi nessuno avrà i numeri per governare, si andrà a votare presumibilmente entro gennaio 2024. A quel punto, vedremo quale sarà la scelta degli spagnoli e delle spagnole in un Paese destinato in ogni caso a essere spaccato in due.
Nella foto: Carles Puigdemont e Yolanda Díaz