Già nel 2009 e nel 2010 i Bric (Brasile, Russia, India e Cina), divenuti poi Brics con l’aggiunta del Sudafrica, avevano fatto la scelta di un mondo che non fosse più assoggettato allo strapotere economico e politico degli Stati Uniti. Dopo anni di stallo, e in particolare dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, questa necessità di “contare di più” è diventata un imperativo categorico. Un’ipotesi che, sia pure con tempi lunghi e indefinibili al momento, potrebbe, tra l’altro, diventare un deterrente per chi volesse risolvere i problemi a suon di guerre, che certo non aiutano lo sviluppo economico che ha bisogno, al contrario, di pace e stabilità.
Così, nel quindicesimo vertice di questo organismo tenutosi dal 22 al 24 agosto a Johannesburg, in Sudafrica, si è deciso nel nome di una “de-occidentalizzazione del mondo” di allargare a undici i membri dell’organismo economico-politico aggiungendo, dal prossimo 24 gennaio, l’Egitto, gli Emirati arabi uniti, l’Iran, l’Arabia Saudita, l’Etiopia e l’Argentina, mentre Indonesia e Pakistan restano in stand by.
I differenti sistemi politici che dividono questi Paesi non rappresentano un ostacolo alla realizzazione dell’impresa. Si va dai regimi democratici come il Brasile, l’India, l’Argentina e il Sudafrica ad altri – come gli Emirati, l’Arabia Saudita o l’Iran – che si macchiano di gravissime violazioni dei diritti umani. Ma questo non sembra un problema, perché il legame che unisce i membri dell’attuale Brics – che continuerà a chiamarsi così malgrado l’allargamento – è economico. Gli undici Paesi rappresentano il 46% della popolazione mondiale – contro il 10% dei G7 – e un terzo del Pil dell’intero pianeta.
Questa decisione storica ridà vigore a un organismo che fu incapace di approfittare della crisi finanziaria internazionale tra il 2007 e il 2008. Come già sottolineato, la guerra tra Kiev e Mosca è diventata una grande opportunità per rilanciare il gruppo. “Con la guerra in Ucraina – osserva Filippo Fasulo dell’Osservatorio di geoeconomia dell’Ispi (Istituto studi politica internazionale) e docente a contratto presso l’Università cattolica di Milano – il formato dei Brics ha ripreso una propria centralità per due ragioni. Innanzitutto, nei primi mesi dallo scoppio della guerra, Russia e Cina si sono trovate a subire la pressione occidentale per isolarle nel contesto del binomio autocrazie/democrazie, e hanno avuto l’esigenza di dimostrare di godere, invece, di un ampio supporto internazionale. In secondo luogo – aggiunge il ricercatore – molti Paesi in via di sviluppo hanno intravisto nello stravolgimento dell’equilibrio globale, dovuto alla guerra, una finestra di opportunità per far valere il proprio peso politico”.
A bussare alla porta dei Brics (che ricordano il movimento dei non allineati, scaturito dalla Conferenza di Bandung del 1955, che peraltro fallì nel tentativo di andare oltre la contrapposizione tra Stati Uniti e Unione sovietica) ci sono altri venti Paesi che, nel futuro, potrebbero arrivare a quaranta. Una sorta di Occidente contro “il resto del mondo” per usare una metafora calcistica.
Il tratto che accomuna i sei Paesi entranti sono i buoni rapporti con la Cina: dunque il vertice è stato, in particolare, un successo per Pechino. Nel dicembre scorso, il presidente Xi Jinping si era recato in Arabia saudita, dopo aver partecipato a un vertice con gli altri Paesi del Golfo. Un ruolo centrale Pechino lo ha giocato anche, nella scorsa primavera, riguardo al conflitto yemenita, dopo colloqui tra le delegazioni di Riad e dell’Oman, da un lato, e funzionari del movimento ribelle Huthi sostenuti dall’Iran, dall’altro, che hanno portato a un cessate il fuoco e a uno scambio di prigionieri.
Scenario simile in Etiopia. Addis Abeba ha da tempo rapporti economici consolidati con il gigante asiatico. Nel 2022, Pechino si è sorprendentemente adoperato per arrivare a un accordo di pace tra il governo centrale e i separatisti tigrini, oltre a cancellare un debito di ben trenta milioni di yuan (4,5 milioni di dollari) al Paese africano. Certo, la Cina non è un benefattore, è evidente il tornaconto legato alla costante penetrazione nell’economia etiopica, così come africana tout court. Una politica, tuttavia, che si distingue nettamente da quella delle potenze occidentali, che hanno spesso strozzato le fragili economie dei Paesi più poveri impossibilitati a pagare i debiti maturati con il Fondo monetario internazionale.
Tra questi, figura l’Argentina, la cui endemica crisi economica è in parte legata alla storica dipendenza dal dollaro. Buenos Aires è già membro della Belt and Road Initiative, ovvero la Via della seta – l’iniziativa strategica cinese di carattere economico finalizzata a migliorare e a facilitare i rapporti commerciali con i Paesi euro-asiatici, e soprattutto un percorso inserito in un più ampio contesto di globalizzazione, in conflitto con gli Stati Uniti. Del resto, i problemi che gravano sul grande Paese sudamericano sono enormi: da un lato, a fronte di una crescita economica e del calo della disoccupazione, si registrano un’iperinflazione a tre cifre e un aumento impressionante della povertà, fattori che hanno vanificato i dati positivi; dall’altro, il processo elettorale che, il prossimo 22 ottobre, culminerà nella scelta del nuovo presidente della Repubblica. Le recenti primarie hanno visto in prima posizione, a sorpresa, l’ultraliberista Javier Milei di “Libertà avanza” – un esaltato che predica la “dollarizzazione” dell’economia e la privatizzazione di tutti i servizi sociali, in una direzione diametralmente opposta alla politica del Brics. Insomma, sul cielo sopra Buenos Aires l’incognita regna sovrana.
Più tranquilla invece la posizione dell’Egitto. Il Cairo – già membro insieme agli Emirati, al Bangladesh e all’Uruguay, della Nuova Banca di sviluppo, un’istituzione finanziaria legata ai Brics – ha da tempo buoni rapporti sia con la Cina sia con l’India. “Proprio il dualismo tra i due subcontinenti asiatici – precisa Fasulo – rappresenta uno dei fattori di maggiore divisione all’interno del gruppo. Inoltre, e di conseguenza, i cinque Paesi originari hanno posizioni diverse sul rapporto con l’Occidente: un maggiore accento sulla contrapposizione per Cina e Russia; solo la ricerca di un’alternativa per tutti gli altri. Un possibile terreno di verifica dell’effettiva consistenza politica di questo raggruppamento – precisa il docente – sarà il prossimo G20, che si terrà in India il 9-10 settembre. Degli undici membri Brics ben sette sono anche nel G20. Compresa l’attuale, ci saranno tre presidenze di fila di membri Brics (dopo l’Arabia saudita, il Brasile nel 2024, e il Sudafrica nel 2025) che potranno spingere un’agenda a favore del ‘Sud globale’, che prevede una partnership più multidimensionale che esclusiva, e dunque più dialogante con l’Occidente”.
Della competizione tra India e Cina parla anche l’economista, ex direttore del “Sole 24 Ore”, Mario Deaglio sulla “Stampa”, che vede New Delhi in una posizione più favorevole nella corsa alla leadership dei Brics. “Tra i grandi Paesi – sottolinea Deaglio – l’unico a mettere in risalto risultati nettamente positivi sembra essere l’India il cui Pil potrebbe crescere del 7% nel 2023, il valore di gran lunga più alto di tutte le economie che contano”. Il tasso di crescita dell’economia cinese è invece valutato intorno al 3,2%, apparentemente a causa della crisi immobiliare; ma non pochi si interrogano se le cose stiano così oppure si tratti della fine di un modello. A conferma, invece, del fatto che l’economia indiana gode di buona salute va ricordato il successo, del 23 agosto scorso, della missione Chandrayaan-3 che le ha permesso di raggiungere il suolo lunare, mentre pochi giorni prima la missione russa Luna-25 si era conclusa miseramente con lo schianto della sonda. “Il Sud del mondo – aggiunge Deaglio – pensa di dotarsi di una moneta che faccia concorrenza al dollaro (della quale il principale sponsor è il Brasile di Lula, ndr) nel commercio internazionale e forse potrebbe essere l’India, e non la Cina, il Paese-guida”.
Quanto sta succedendo non può certo lasciare indifferenti i tanti Paesi del Sud del mondo che non vedono l’ora di sganciarsi dall’egemonia occidentale. Pierre Haski – tra i fondatori del sito d’informazione “Rue89”, responsabile di una rubrica quotidiana di politica internazionale su Radio France –, in un articolo pubblicato da “Internazionale”, sostiene che “la prima cosa da fare è ascoltare le legittime richieste di uguaglianza che arrivano dai Paesi del Sud”. A giugno, in occasione del vertice sul finanziamento per lo sviluppo, organizzato a Parigi, il presidente del Kenya William Ruto, tutto fuorché un avversario dell’Occidente, ha avuto uno scambio di vedute acceso con il presidente francese Emmanuel Macron. Per il leader africano “le istituzioni internazionali non possono continuare a darci ordini. Devono sedersi al tavolo con noi per prendere delle decisioni”.
Non avendo la sfera di cristallo, è difficile prevedere che cosa succederà dopo l’appuntamento sudafricano. Ma, come abbiamo detto, l’esito del dualismo tra India e Cina sarà fondamentale, soprattutto perché l’ex colonia britannica ha in piedi rapporti importanti anche – ed è questo il punto – con gli Stati Uniti. Quale scenario sarà più favorevole, contrapposizione netta o dialogo con l’Occidente, per creare un’alternativa autorevole? Quest’ultima ipotesi sembra la più credibile e auspicabile, anche perché sponsorizzata dai Paesi più democratici del gruppo, dunque più adatti a coniugare fermezza e dialogo. Senza dimenticare che l’esito della guerra avrà comunque un suo peso per il futuro dei Brics.