I sovietici, che pensavano in grande, costruirono perfino un ponte tra la Russia comunista e l’Afghanistan, e lo chiamarono “ponte dell’amicizia”. Spietata ironia della sorte: il 15 febbraio 1989, proprio su quella passerella di acciaio tesa tra le due rive del fiume Amu Darya, il buon generale Gromov guidò la mesta ritirata dell’Armata rossa: dopo dieci anni di guerra, ventiseimila soldati uccisi e quasi sessantamila feriti.
I militari americani non avranno nemmeno un ponte da ricordare: con il consueto tono notarile, Joe Biden annuncia la storica decisione, dichiarando che è tempo di mettere fine alla “guerra infinita” in Afghanistan. Il riferimento all’oltraggio del Vietnam diventa esplicito quando il presidente aggiunge che il peso di questa avventura si è reso insopportabile e si è tradotto in un multigenerational undertaking, cioè in una leva militare che ha coinvolto due generazioni: prima i padri e poi i figli.
Il prossimo 11 settembre gli ultimi soldati americani lasceranno dunque il lontano Paese asiatico per non farvi più ritorno. Si conclude così la guerra dei venti anni, come avrebbe detto Eliot, “non con uno schianto, ma con un gemito”. La storia si ripete e il “grande gioco” in Asia centrale non risparmia gli imperi: nel terzo millennio gli americani sono sconfitti come i sovietici nel Novecento e come inglesi e russi nell’Ottocento.
Sono stati sufficienti sedici minuti di sobrio commento dallo studio della Casa Bianca per liquidare due decenni di guerra a bassa-media-alta intensità, e infine per scolpire quella data – il fatale 11 settembre 2001 – posta a suggello di una impresa che non ha portato né gloria, né sicurezza, né bottino di guerra. Ricordiamo che venti anni fa, con le rovine delle Torri gemelle ancora fumanti, fu questo l’imperativo categorico della neonata presidenza Bush: uccidere Bin Laden, distruggere i suoi rifugi e annientare i suoi uomini, piegare la resistenza talebana, rendere infine l’intero Afghanistan un luogo degno di essere abitato.
Bisognava allora “vendere” la guerra all’America e al mondo, come rivendicò il portavoce della Casa Bianca, Andrew Card. Così infatti la guerra fu venduta al mondo, e contro i talebani fu armata la crociata occidentale, coinvolgendo nella spedizione militare l’intera alleanza atlantica. Due presidenze americane portano l’impronta di questa moderna avventura. Il repubblicano George Bush junior scatenò l’attacco, ma fu durante la presidenza Obama che le truppe americane impiegate sul terreno raggiunsero la cifra vertiginosa di centomila effettivi. E fu in quegli anni che le più raffinate menti politiche della Casa Bianca si industriarono a creare il “modello Kabul”: un castello di carte, una democrazia posticcia, che tremava e cadeva a pezzi a ogni attentato, a ogni agguato, a ogni strage di civili.
Oggi Joe Biden, che non ha mai nascosto il suo scetticismo sull’avventura bellica, parla di due obiettivi raggiunti: aver annientato Al Qaeda e aver reso l’Afghanistan un luogo sicuro da cui nessun terrorista possa lanciare attacchi contro l’America e i suoi alleati. Mentire per la maggior gloria del proprio Paese: è questo, del resto, l’ufficio di ogni buon presidente. Ma criticare e mettere in dubbio la verità ufficiale è il dovere della libera stampa; e così ecco che i giornali americani sono pieni di analisi e commenti che smentiscono la Casa Bianca.
Un titolo per tutti: il New York Times parla della “contraddizione che ha condannato al fallimento la missione americana in Afghanistan”. Il peccato originale – scrive Max Fisher – è stato quello di voler annientare i talebani e nello stesso tempo costruire uno Stato fortemente centralizzato. In altre parole: imporre un nuovo ordine dall’alto cercando di distruggere il gruppo che rappresenta la comunità rurale decisiva nell’organizzazione sociale del popolo, i Pashtun. “L’America si è macchiata di hybris”, commenta l’analista Michael Wahid Hanna, facendo riferimento al peccato di superbia in cui, nell’antica Grecia, incappavano gli umani che si ritenevano pari agli dei. In questo delirio di potenza, ogni successo militare sul terreno è stato a torto interpretato come un successo politico. Risultato: vittoria dopo vittoria, Washington ha costruito in Afghanistan la sua definitiva sconfitta.
Se l’America si interroga, se gli alleati della crociata occidentale tacciono, l’Italia – come sempre succede – si accapiglia in una lite da condominio. Esulta il Movimento 5 Stelle, che non perde l’occasione per rispolverare una delle sue antiche bandiere. Protesta Fratelli d’Italia, che lamenta il mancato coinvolgimento del parlamento. Il Pd tace e si affida alle parole del ministro della difesa Guerini, che promette un ritiro delle truppe italiane in sicurezza e l’impegno futuro nella cooperazione allo sviluppo.
Per Emergency “il tentativo di trasformare l’Afghanistan in una democrazia stabile e funzionante è fallito e ha avuto costi altissimi”. Difficile dar torto all’organizzazione di Gino Strada. Quel lontano Paese è ormai in armi da oltre quarant’anni, e quella che si annuncia non è la pace delle istituzioni democratiche, ma una nuova guerra civile. Valga per tutti l’amaro commento della parlamentare Raihana Azad: “Per tutti questi anni noi donne siamo state vittime della guerra degli uomini. Ma penso che saremo anche vittime della loro pace”.
Così l’Afghanistan è pronto da oggi ad aggiungersi al lungo elenco delle nazioni fallite: un arcipelago di violenza e abbandono che si allarga ormai su tutti i continenti: dall’Africa della Somalia e del Congo al Caucaso della Cecenia e del Nagorno Karabakh, all’Asia del Myanmar, fino ai margini della nostra Europa, con i frammenti avvelenati dell’esplosione balcanica.
Con il ritiro dell’alleanza atlantica da Kabul torna infine a dominare nello scacchiere dell’Asia centrale il grande alleato riottoso e infido dell’Occidente. Il Pakistan, che fu rifugio sicuro di Bin Laden, è oggi squassato da disordini e manifestazioni anti-francesi, per la vecchia storia del sostegno di Macron alla satira anti-islamica di Charlie Hebdo. Ma tutto si tiene, a queste latitudini, e la posta in gioco è ben altra, con i gruppi islamisti radicali che tentano di allargare la loro influenza all’interno del potere politico e militare. Con il vicino afghano ormai libero dal presidio armato dell’Occidente, il “grande gioco” può ricominciare.