Il voto spagnolo ci dice una volta di più che il bi-partitismo, come polarizzazione sociale attorno a due grandi formazioni, che si identificano con destra e sinistra, è al tramonto. Non tanto e non solo per l’effetto di una sempre maggiore frammentazione delle tribù metropolitane, quanto soprattutto per la necessità di accorciare le distanze e rendere sempre più interattiva la relazione nell’organizzazione politica. Il buon risultato dell’alleanza della sinistra radicale, e la resistenza delle liste autonomiste, sono risultati l’elemento vincente (potremmo dire come le Sardine in Emilia-Romagna al tempo dell’assalto reazionario alla Regione), perché hanno esteso il campo di centrosinistra, e anche contrastato con successo la campagna di inquinamento informativo di Vox. Proprio il radicamento territoriale delle formazioni locali ha contrastato la campagna di terrorismo comunicativo, che la destra spagnola aveva imbastito sull’esempio di Cambridge Analytica. Questi due elementi, una maggiore rappresentatività del campo riformatore e una capacità di relazione territoriale molecolare, hanno reso il fronte progressista in grado di opporsi all’ondata reazionaria.
Ma il quadro non è stabile. Un eventuale nuovo ricorso alle urne sposterà ancora il confine fra i due mondi politici. La crisi ambientale e la pressione tecnologica radicalizzano ulteriormente lo scontro. Da una parte, come abbiamo visto, si teme una maggiore integrazione nel blocco conservatore di aree popolari, come la geografia del voto già sta rendendo visibile. Dall’altra, diventeranno decisive le grandi città, in particolare la capitale e tutta l’area di Barcellona, che deve risolvere le sue pulsioni secessioniste. Si annuncia così un laboratorio per l’intera Europa: la sinistra dovrà affrontare con decisione la lezione spagnola.
Una componente moderata, come il Pd, deve porsi il problema di una base sociale coerente con una filosofia amministrativista, dove il tema rimane quello di gestire meglio il sistema, mentre le componenti più radicali devono trovare contenuti e formule per un’identità e una capacità di attrazione. Il segnale che arriva da Madrid ci dice che è l’assenza di una proposta di una forte sinistra sinistra che manca per dare spessore e competitività all’opposizione al governo meloniano. Su questo varrebbe la pena discutere, invece di intrattenersi sulla mappa delle correnti del partito di Elly Schlein.
Perché in Italia, dopo la fiammata legata al rigurgito nostalgico per lo scioglimento del Pci, nei primi anni Novanta, non riesce a radicarsi una formazione di sinistra in grado di collegare una base di produttori con un ceto intellettuale e professionale che contesta le compatibilità del sistema? Anche in Spagna il quadro è problematico. L’irruzione di Podemos ha spazzato ogni realtà legata alla tradizione comunista. Ma subito dopo è comunque riemersa una realtà sociale che cerca una strada più negoziale con i padroni del vapore, in grado di riaprire il tema di una transizione di valori e di sistema.
La relazione fra l’alleanza Sumar con le comunità territoriali costringe il corpaccione del Psoe a una riflessione meno scontata sia sull’Europa sia sulle forme di riarticolazione del welfare. Procedere in questo dibattito, senza rimanere invischiati in una pura resistenza antifascista, può aprire spazi inediti non solo per la Spagna, riaccreditando una prospettiva di ricerca teorica e sociale per riproporre credibilmente il tema di un cambio reale di equilibri fra proprietà e cittadinanza. Un modo per aprire squarci nello stesso blocco sociale reazionario, offrendo alle aree del disagio una speranza che non sia piattamente subalterna a un efficientismo senza principi.