La scena più bella che abbiamo visto nelle ore del ritorno di Patrick Zaki in Italia, dopo la sua scarcerazione, è stata quella dell’accoglienza dello studente da parte del rettore dell’Università di Bologna, Giovanni Molari, e della professoressa Rita Monticelli, che è stata la docente del ricercatore egiziano. “Ben arrivato Patrick” – hanno detto semplicemente a Malpensa i due rappresentanti della prestigiosa Università. “È il giorno più bello della mia vita” – ha detto Zaki, che ha voluto anche citare Nelson Mandela: “Tutto è impossibile finché non si realizza”.
Ma insomma, chiederete, che c’è di strano? Perché questa scena vi sembra così gratificante? Semplice: perché se Zaki non avesse scelto di tornare in Italia con un volo di linea e avesse viaggiato su un areo militare, dopo l’atterraggio, al suo fianco – negli scatti convulsi dei cronisti e nelle riprese per i tg – ci sarebbero stati Giorgia Meloni, Antonio Tajani e il ministro della Difesa, Guido Crosetto. Siamo quindi molto contenti dell’epilogo, sia dal punto di vista del merito – la liberazione dopo una lunga, violenta e ingiustificata detenzione – sia dal punto di vista della forma, perché la foto dell’attivista per i diritti umani con i rappresentanti di un governo che ha il solo merito di avere seguito la diplomazia nell’ultima fase dell’operazione sarebbe stata un’immagine stonata. Era giusto ringraziare il governo italiano ed esprimere un senso di gratitudine per uno Stato che ti ospita. E questo Patrick Zaki lo ha fatto, e crediamo che le sue parole non siano state solo diplomatiche. La riconoscenza e la gioia sono state esplicite nelle sue parole e nei suoi sorrisi. Ma la riconoscenza non si sarebbe dovuta trasformare in un pieno affidamento – anche perché il merito vero di questa liberazione va prima di tutto al grande movimento che si è sviluppato in Italia e in altri Paesi a favore di Zaki, diventato un simbolo delle battaglie civili e di libertà. Solo per la petizione lanciata in Italia sono state raccolte oltre trecentomila firme, in calce a un testo in cui si chiedeva al governo di concedere a Zaki la cittadinanza italiana per “meriti speciali”.
L’altro elemento fondamentale che spinge all’applauso nei confronti del giovane ricercatore riguarda la possibile ambiguità sul prezzo della liberazione. Come avviene per ogni sequestro, anche in questo caso di sequestro di Stato da parte dell’Egitto ci si è chiesti quanto l’Italia è stata disposta a pagare. Ovviamente qui – e scusateci il paragone sicuramente forzato e inappropriato tra Stati e organizzazioni criminali – il prezzo da pagare avrebbe potuto essere di tipo politico. A tutti è venuto subito in mente lo scambio: l’Italia incassa la liberazione di Zaki (che era stato appena confermato nella sua detenzione) in cambio del silenzio tombale sull’uccisione in Egitto di Giulio Regeni. Uno scambio che, se fosse accertato, sarebbe di una gravità politica e umana pesantissima. Ma è uno scambio che non c’è stato e che non ci sarà mai, hanno detto quasi all’unisono Giorgia Meloni e Antonio Tajani, che mettono la mano sul fuoco sulla volontà dell’Italia di arrivare fino in fondo. “Per Patrick Zaki i risultati con l’Egitto si sono avuti grazie alla diplomazia, e si continuerà a fare lo stesso anche per Regeni” – ha dichiarato il ministro degli Esteri Antonio Tajani. La storia ci dirà.
Intanto a noi preme approfondire il senso della scelta di Zaki. Ideologia? Sgarbo a un governo chiaramente di destra che propugna valori molto diversi da quelli che il ricercatore ha potuto approfondire durante il master di Bologna? “Decidere di viaggiare su un volo di linea non è un gesto di opposizione politica, ma di indipendenza” – ha affermato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, che spiega: “La reputazione dei difensori dei diritti umani si basa sulla loro indipendenza dai governi. Ringraziano e apprezzano quando si fanno delle cose per loro, e infatti Patrick ha ripetutamente ringraziato governo e ambasciata”.
Anche noi, come Noury, pensiamo che al fondo della scelta di Zaki ci sia quel senso di autonomia e indipendenza di chi si sente impegnato nella ricerca universitaria, ma soprattutto nella partecipazione diretta alla battaglia in difesa dei diritti universali. Una scelta di autonomia e indipendenza che altri hanno fatto nel corso della storia, e che hanno pagato a caro prezzo quando i fatti si sono verificati in particolari periodi storici.
Il caso forse più famoso, per quanto riguarda la storia del nostro Paese, è quello dei professori universitari che dissero no al duce. L’8 ottobre 1931 Mussolini impose ai professori universitari il giuramento di fedeltà al fascismo. Su un migliaio di ordinari soltanto dodici si rifiutarono di piegarsi, perdendo la cattedra e subendo, nell’Italia massicciamente sottomessa al regime, un totale isolamento. Dodici uomini, differenti per origine, carattere, modi di pensare, attitudini sociali; in quell’autunno del 1931 impartirono la più magistrale delle lezioni insegnando che dire no è una scelta dovuta prima di tutto a se stessi. Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra – questi i nomi di coloro che hanno compiuto un gesto essenziale in nome di quegli “ideali di libertà, dignità e coerenza interiore” nei quali erano cresciuti. Una storia raccontata, tra gli altri, da Giorgio Boatti nel suo libro Preferirei di no (2017).
Ovviamente lungi da noi stabilire un nesso stretto tra un giovane ricercatore egiziano e quei professori dell’altro secolo. E lungi da noi fare paragoni tra Giorgia Meloni e Benito Mussolini. Non vogliamo neppure ripercorrere l’elenco dei grandi rifiuti nella storia come quello di Celestino V, né ipotizzare un’adesione di Patrick Zaki alle filosofie della non violenza e della resistenza “passiva” alla Gandhi – anche se quella citazione di Mandela potrebbe farci venire qualche idea sulle sue matrici culturali e i suoi punti di riferimento. Non ci interessa imbarcarci in improbabili esegesi e ricostruzioni filologiche. Ci premeva piuttosto sottolineare e rilanciare il grande valore etico e politico della scelta più semplice e talvolta più difficile: dire no.