Sabato 8 luglio, nella città colombiana di Leticia, Luiz Inácio Lula da Silva e Gustavo Petro hanno chiuso la riunione Road to Amazon Summit, l’incontro iniziato il 3 luglio, durante il quale le organizzazioni indigene, gli ambientalisti e i ministri degli otto Paesi dell’arco amazzonico hanno avuto modo di confrontarsi in vista del vertice che avrà luogo a Belém do Pará, in Brasile, l’8 e il 9 agosto. L’occasione ha visto riuniti per la prima volta – e già questa è una notizia – i ministri dell’Ambiente di Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela: cioè di tutti gli Stati che condividono l’area amazzonica e che, come tali, sono membri dell’Organizzazione del trattato di cooperazione amazzonica (Otca). Scopo della conferenza era quello di concordare politiche per preservare il più grande polmone del mondo. Oltre alla deforestazione, perseguita per l’ampliamento dei confini agricoli e zootecnici, al centro dei lavori c’è stata la lotta ai crimini ambientali transnazionali, ai taglialegna e ai minatori d’oro illegali, ai contrabbandieri e ai trafficanti di droga, al fine di preservare i popoli indigeni mediante la condivisione di conoscenze utili allo sviluppo dell’Amazzonia.
L’Otca ha visto la luce nel lontano 1995 come una derivazione del Trattato di cooperazione amazzonica del 1978. Da allora, se si esclude un vertice nel 2009, la sua attività è stata pressoché nulla, e non ha portato ad alcuna azione comune da parte degli otto Paesi aderenti. Che il suo rilancio avvenga ora, quando a governare il Brasile e la Colombia sono due presidenti che hanno posto la questione ambientale al centro delle loro politiche, non è quindi un caso. E in questo senso va anche letto l’incontro tra Lula e Petro, in una città amazzonica del sud colombiano.
All’appuntamento, i due non sono arrivati a mani vuote. Il colombiano ha potuto vantare che nel suo Paese la deforestazione si è fermata del 76%, durante il primo trimestre del 2023, rispetto allo stesso periodo dell’anno passato; e ha lanciato un nuovo appello alla decarbonizzazione per preservare l’Amazzonia, assicurando che “sul petrolio, sul carbone e sul gas si può costruire solo l’estinzione della vita, il contrario dello sviluppo”. Il suo omologo brasiliano, da parte sua, ha sparso ottimismo, vantando una diminuzione del 33,6% della deforestazione nello stesso periodo di tempo. Secondo il più recente bilancio annuale di deforestazione, rilasciato a dicembre ed elaborato con dati consolidati, coincidente con la fine del mandato di Bolsonaro, l’Amazzonia brasiliana risulta avere perso 11.500 chilometri. Lula però ha assicurato che “parlare dell’Amazzonia è parlare di superlativi: è la più grande foresta pluviale del mondo, la patria del 10% di tutte le specie animali e piante del pianeta; ha cinquanta milioni di abitanti, con quattrocento popoli indigeni che parlano trecento lingue; possiede le più grandi riserve di acqua dolce del pianeta”. Con il suo collega colombiano, ha chiesto ai Paesi più ricchi di contribuire con fondi alla conservazione dei territori amazzonici, dato che questa grande giungla è la chiave per la mitigazione del cambiamento climatico in tutto il mondo.
Ad anticipare i nuovi dati relativi al Brasile, era stata giovedì scorso Marina Silva – ministra dell’Ambiente del governo di Lula – che ha spiegato che “la riduzione della deforestazione in Amazzonia è dovuta a una serie di azioni, che vanno dall’aumento delle ispezioni e degli embarghi per i trasgressori (da parte dell’Ibama, l’Istituto brasiliano dell’ambiente), fino all’azione coordinata con gli Stati e alla deterrenza messa in atto per dimostrare che non ci sarà connivenza con i criminali”. Tutto quello, cioè, che Jair Bolsonaro aveva smantellato. Un cambiamento totale rispetto alle sue politiche, basate su convinzioni negazioniste circa il riscaldamento globale, che avevano dato mano libera agli inceneritori dell’Amazzonia. Un poker d’assi servito in mano a Lula, che alla comunità internazionale sta chiedendo, dal giorno del suo insediamento lo scorso gennaio, sostegno e denaro per proteggere la più grande area verde del mondo. Con questi dati, che tuttavia dovranno essere confermati tra qualche mese, il presidente brasiliano può dimostrare già da adesso che sta facendo sul serio, e che un cambiamento radicale nella politica ambientale è confermato anche dalle rilevazioni ufficiali fatte dalle istituzioni brasiliane.
È una chance in più per la trattativa in corso con l’Unione europea, per chiudere le questioni ancora in sospeso e ratificare il Mercosur, da tempo al palo a causa delle richieste europee in ambito ambientale e per via delle critiche provenienti da parte latinoamericana. Va tenuto conto, poi, che il semestre appena apertosi vede alla presidenza dell’Unione la Spagna, mentre a presiedere il Mercosur è arrivato proprio Lula, dopo il recente cambio della guardia col presidente argentino. Il presidente del gigante verde-oro torna così a ricoprire l’incarico dopo tredici anni, con l’obiettivo, tra gli altri, di sciogliere gli ultimi nodi per l’accordo commerciale dopo oltre vent’anni di negoziati. Un accordo che interesserà una popolazione totale di oltre 290 milioni di persone, dove il Paese più popoloso è appunto il Brasile (206.081.432 abitanti), seguito dall’Argentina (43.590.368), dal Venezuela (31.703.499), dal Paraguay (6.854.536) e dall’Uruguay (3.351.016). Un compito in cui potranno esercitarsi le ben note capacità di negoziatore di Lula che, del ruolo internazionale suo personale e del Paese che presiede, ha fatto la cifra della propria azione politica, togliendo il Brasile dall’isolamento internazionale a cui l’aveva condannato Bolsonaro. Senza dimenticare lo sforzo in cui Lula ha voluto recentemente impegnarsi riguardo al conflitto in Ucraina e alla questione nicaraguense, dopo il recente incontro in Vaticano con papa Francesco.
“Dobbiamo unire le forze affinché nelle discussioni internazionali la nostra voce sia ascoltata nelle conferenze sul clima, la biodiversità e la desertificazione, e nei dibattiti sullo sviluppo sostenibile” – ha detto il presidente brasiliano. Sostenendo il rafforzamento istituzionale dell’Otca, di cui ha detto che è “uno strumento che invece di isolarci ha la capacità di proiettarci al centro della sfida più importante del nostro tempo, il cambiamento climatico. Quello che si fa in un angolo del Sud America ha un impatto su un altro. Ecco perché la nostra cooperazione è così importante”. Incalzato dalla ministra colombiana dell’Ambiente, Susana Muhamad, che ha ricordato che “per sostenere l’Amazzonia, secondo la scienza, abbiamo bisogno di sostenere l’80% delle sue foreste e riuscire a non superare il 20% di deforestazione, e purtroppo siamo già al 17%”, visto che “perdere l’Amazzonia, raggiungere il punto di non ritorno, ha conseguenze irreversibili sul cambiamento climatico globale”.
Tutto bene, quindi? Non completamente, dato che l’incontro di Leticia si è concluso con il no di Lula al divieto di prospezioni petrolifere nel polmone del mondo, al quale Gustavo Petro aveva esplicitamente chiesto di aderire. “’Permetteremo l’esplorazione petrolifera in Amazzonia? Consegneremo aree per l’esplorazione? Questo significa generare ricchezza? È una decisione che dobbiamo prendere insieme, gli otto Paesi dell’Amazzonia” – aveva detto Petro. Ma il suo omologo brasiliano ha glissato: non ha preso una posizione chiara al riguardo, dato che il tema della prospezione petrolifera è senza dubbio una questione delicata per il suo governo, visto che la compagnia petrolifera nazionale si è vista negare una licenza di perforazione alla foce del Rio delle Amazzoni proprio dall’Ibama, che dipende dal ministero dell’Ambiente guidato da Marina Silva. Un progetto al quale Petrobras, peraltro, non ha alcuna intenzione di rinunciare.
Così, il presidente brasiliano si è limitato a ribadire il suo impegno di deforestazione zero per il 2030, come aveva già dichiarato a giugno a Parigi, alla conferenza organizzata dal presidente francese Macron per un Nuovo Patto finanziario globale, in cui sono stati annunciati centomila milioni di dollari di finanziamenti per il clima nei Paesi in via di sviluppo. Se di certo l’Amazzonia sembra occupare un posto centrale nella politica del governo di Lula, accuse gli vengono mosse tuttavia dagli ecologisti, perché trascura altri biomi altrettanto essenziali per salvaguardare il pianeta. In primo luogo il Cerrado, i cui avvisi di deforestazione, secondo i dati ufficiali, sono aumentati del 21% nella prima metà di quest’anno. E quindi il Pantanal, che ha perso il 58% della sua vegetazione negli ultimi anni.
Ciò detto, l’Amazzonia rischia di diventare anche un boomerang politico, a causa dei gruppi criminali che vi sono penetrati negli ultimi anni: oggi il transito di cocaina è diventato una realtà quotidiana, che fa impallidire le attività pionieristiche messe in campo negli anni Ottanta da Tommaso Buscetta, con l’atterraggio di aerei leggeri carichi di cocaina, e che a questo scopo aveva acquistato terreni nello Stato del Pará, insieme con Gaetano Badalamenti. I principali gruppi criminali rimangono pur sempre il Primo comando della capitale (Pcc) e il Comando vermelho (Cv), presenti anche in Perù, Colombia e Venezuela. Spetta a loro il traffico di droga, ma detengono anche il controllo del traffico del legno, considerato la principale causa di deforestazione in Brasile. A farne le spese, è la popolazione locale, prevalentemente indigena, che vive nell’Amazzonia brasiliana. Qui si sono registrati i tassi di omicidi più alti del Paese nel 2021: una media regionale di 29,6 omicidi per centomila abitanti, rispetto a una media nazionale di 23,9. Il tasso di omicidi nel nord del Brasile, dove si trovano sette dei nove Stati amazzonici, è aumentato del 260% tra il 1980 e il 2019, in un momento in cui ampie aree del sud hanno visto invece un calo significativo. I comuni che hanno sperimentato livelli relativamente più alti di deforestazione hanno sperimentato anche livelli di violenza superiori alla media.
Oltre al taglio illegale di legname, l’estrazione mineraria illegale continua a essere l’altro problema. La polizia federale brasiliana ha fatto espellere circa 25.000 minatori illegali negli ultimi mesi; ma la comunità indigena yanomami continua a essere vittima delle uccisioni dei garimpeiros – tredici solo lo scorso maggio –, mentre centotrenta indigeni sono morti a causa delle condizioni sanitarie nella prima metà del 2023. Il 43,4%, erano bambini sotto i quattro anni. Gli indigeni sono tra i più colpiti dall’avvelenamento da mercurio, utilizzato dall’estrazione mineraria illegale. Tutto ciò rende il problema delle selve amazzoniche molto più complesso, e potrebbe pesare sui negoziati con l’Unione europea, compromettendone definitivamente il futuro, rendendo vane così le politiche messe in atto da Lula e dalla sua ministra dell’Ambiente.